Parto per la mia seconda maratona con l’aria navigata, di chi sa.
La maratona per me non ha più segreti, non sono più un debuttante, ormai, l’ho già fatta una volta, ho cimentato me stesso, toccato i limiti. L’ho finita, e, come si dice, la prima volta non si scorda mai. E niente potrà eguagliare le prime emozioni di aver pedalato in uno scenario e in un contesto così unico al mondo (anche Unesco è d’accordo).
Questo penso, arrivando in macchina da Milano, ma in realtà da molto più lontano, da una settimana passata in giro per l’Europa, tra uffici chiusi e pieni di gente al lavoro e aeroporti, taxi, traffico. E mentre combatto la stanchezza guidando e pensando, arrivo, e ancor prima di arrivare, il cuore quasi mi si ferma dall’emozione. Ecco, penso, sto incarnando alla lettera il modo di dire “paesaggio mozzafiato”, sono proprio io, quello lì con la bocca spalancata e gli occhi di più, per riempirli di queste montagne, così grandi e maestose che non le si riesce a guardare tutte in una volta sola. Per assorbire questa luce, questi colori dopo tutti i bianchi e neri della settimana passata.
E mentre salgo i tornanti che domani e domenica saranno vietati alle auto e formicolanti di migliaia di biciclette, comincio a chiedermi se sono pronto, se ce la farò. Come un coccodrillo al contrario, piango sui chilometri che avrei dovuto fare e non ho fatto, sulle volte che non sono uscito, sul troppo tempo passato alla scrivania e al poco dedicato a soffrire in sella. 500 km esagerando un po’, basteranno? mi chiedo con la brutta imitazione di una domanda retorica.
La mattina dopo il tempo è bellissimo, forse anche troppo, e se l’anno scorso si gelava, magari quest’anno si schiatterà…faccio comunque un giro circospetto sulla mia Specialissima Bianchi, spingendo poco, tenendo tutte le energie per domani, giusto il tempo per apprezzarne la vivacità, la duttilità, la gioia di pedalarla.
E’sempre bello aggirarsi per il villaggio, circondati unicamente da nostri simili, uniti da una passione comune così forte da farci credere pazzi dal resto del mondo, eppure, siamo tantissimi anche quest’anno, tutti felici per le fatiche che ci aspettano e che noi invece aspettiamo tutto l’anno. In giro si parla uno strano esperanto fatto di parole tecniche, tutte abbastanza comprensibili, mischiate alle lingue di tutto il mondo. Il dialetto ciclista, un idioma che mette allegria.
Ritiro il pacco gara e tiro fuori gli oggetti uno ad uno come un bambino dalla calza della befana. Emozione e meraviglia che arrivano all’apice quando tiro fuori lei, la mia maglietta, trofeo e testimonianza che “io c’ero”.
La sera, come tradizione vuole, cena leggera e a letto presto, ma poi, chi dorme? Il cuore pulsa al ritmo che sarà dei pedali, domattina, e la sveglia, delle 4,15 è sempre più vicina.
Anche dopo aver dormito eufemisticamente poco però, alle 4,30 sono a tavola, a fronteggiare il breakfast prima della gara. E non sono mai stato così sveglio. Mangio tanto, con calma (relativa), un pasto abbondante e ben bilanciato: pasta bianca con olio extravergine e parmigiano, un bel caffè forte e nero, frutta (poca per non appesantire la digestione) e proteine magre e leggere che si materializzano davanti ai miei occhi sotto forma di un bel piatto di bresaola.
Alle 5,30 si monta in sella e si parte alla volta de La Villa. Mi tremano le gambe, e non è la mancanza di allenamento, o il poco sonno. Non è nemmeno il freddo, che quest’anno è decisamente sopportabile, con l’aria tersa e freschina ma il sole che già anticipa il tepore che ci sta per regalare e che nelle ore successive diventerà un gran bel caldo. No, è l’emozione che precede la fatica, e la meraviglia di questa giornata. Percorro il Mur del Giatt (riservato ai percorsi Medio e Lungo) e anche in discesa faccio fatica: da tanto è ripido mi fanno male le mani, e mi chiedo come deve esssere farlo in salita per ultimo!
Arrivati in griglia però, tutto passa, scalzato via dalle chiacchiere e dalle battute che i ciclisti si scambiano per sdrammatizzare e stemperare la tensione dell’attesa. Mi guardo in torno e mi sento letteralmente abbracciato dal grande ciclismo internazionale. 10 mila persone che hanno viaggiato da ogni parte per questa sfida, per essere insieme, qui, oggi, a fare una dichiarazione d’amore alla bicicletta, che varca ogni confine, ogni ideologia, scavalla problemi di economia e politica interna come fossero passi di montagna, in equilibrio instabile tra fortuna e sfortuna, allegria e tristezza, carestia e abbondanza. (Equilibrio è proprio il tema che il grande Michil ha voluto dare a questa 32 esima edizione).
Partiamo, e le gambe, la fatica, l’emozione, chi se le ricorda più? C’è solo concentrazione adesso, voglia di andare, di arrivare al confine dei propri limiti e superarli, magari di pochi chilometri, o con qualche secondo in meno nel tempo finale.
Il Camplongo quasi non lo noto, preso come sono a districarmi nel “traffico” dei ciclisti che mi circondano e a volte mi superano in maniera azzardata. Il Pordoi, il mio preferito, lo faccio di un fiato, al ritmo dei suoi 33 tornanti regolari, e arrivato in cima mi concedo una sosta per ammirarne la bellezza. Un serpente sinuoso fatto solo di ciclisti in movimento, senza soluzione di continuità. Il silenzio assoluto (bella eh, la vita senza auto!) a cui non siamo abituati, rotto solo dalle mille cicale dei cambi.
La giornata non potrebbe essere più bella, e mi tuffo nella discesa come un provetto tuffatore dagli scogli, in un mare verde e blu, tagliato da un nastro d’argento asfalto nel sole ancora basso, nell’aria ancora fresca e frizzante.
Decido di affrontare la bestia nera, il Sella, snobbando il punto ristoro ufficiale, ma mettendo mano a un rifornimento personalizzato di energia: gli stick di bresaola Dove vuoi, che guarda caso hanno la misura esatta di una taschina posteriore della maglia (sarà mica stato fatto apposta?). Li afferro andando, senza fatica, e li divoro con gusto. E mentre l’energia riparte, penso che Dove vuoi è proprio un nome azzeccato. Mentre i corni svizzeri ci salutano, mi sento un leone e penso “Passo Sella nun te temo”. Un po’ me la stavo tirando, confesso, e quando, dopo i primi chilometri impossibili, con quei tornanti acuti, come gomiti la strada spiana un po’, la benedico, come prima ho benedetto la bresaola.
Il Gardena, un po’ infingardo, perché ti illude con il suo 4% e e poco più di pendenza media senza specificare che in mezzo ci sono un paio di chilometri di discesa ad abbassarla, quest’anno lo conosco già e quindi non mi frega, tengo in serbo un po’ di energia anche per lui, aggiungendo un piccolo refill di sali e bresaola. Quando arrivo in cima, tiro il fiato e mi preparo all’ultima discesa, quella con la gente a bordo strada che ti incita e ti fa sentire importante, quella dove scendi felice, dove il vento apparente ti rinfresca e asciuga il sudore, quella che sai che sarà definitiva, perché sai già senza bisogno di arrivare al fatidico bivio che anche quest’anno opterai per il “percorso classico” che è un modo elegante di definire il corto. Il Mur del Giatt in salita deve aspettare, lo farò l’anno prossimo.
Reportage di Giordano Roverato
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