A noi di Viagginbici.com piace pubblicare il racconto delle vostre esperienze di viaggio sulla due ruote. Oggi Simone Arianna, un giovane ciclo viaggiatore amante della fotografia e del video editing, ci porterà nella sua avventura in bici a Capo Nord.
Forse è proprio vero. Non esiste ricchezza maggiore di un viaggio: per arricchire il proprio essere, il proprio bagaglio di sogni e racconti di vita. L’ho capito fin da subito: ammirando e aspirando a lunghe traversate, viste, sognate e già immaginate, programmate con costanza e certosina dedizione.
Quando finalmente, arriva il mio turno, montare in sella e aspirare ad uno dei traguardi più ambiti per un viaggiatore a pedali. Caponord. Tappa lontana, tanto quanto affascinante. Un punto estremo, tale da portare all’estremo l’immaginazione, la fantasia , la consapevole certezza che si stia pedalando ancora su questo nostro pianeta Terra.
Perché è stata proprio questa la mia prima impressione una volta attraccato in terra Vichinga, nella Norvegia più estrema. Una natura che ti spoglia di ogni insicurezza, perplessità, previsione. Tanto immensa quanto disarmante, che ti concede tanto e che allo stesso tempo può toglierti tutto. O la ami o la odi.
Parto in giugno da Oslo, in sella alla mia Jacoba, una Ortler Black Edition di formazione tedesca. Non un pezzo da 90 in quanto a componentistiche meccaniche, ma robusta come un toro nel suo telaio in alluminio. Neppure un minimo problema per più di 4.000 chilometri. Cambio 27 rapporti, Shimano Alvio, freni idraulici Magura, Schwalbe antiforatura, ma soprattutto borse water resistent. Perché vi giuro che di acqua ne hanno presa tanta, ma tanta per davvero.
Facendo riferimento alla official bike route numero 1, mi dirigo in un primo momento a sud, raggiungendo Kristiandand, per poi risalire tutta la penisola Scandinava, sul versante Atlantico fino a Caponord. A più battute lascio e riprendo la costa per spostarmi verso il cuore pulsante di questa Nazione, i suoi parchi nazionali. Alterno a lunghe giornate di trekking al mio pedalare lento, parcheggiando, senza alcuna preoccupazione di furti, la mia bici in parcheggi pubblici. Forse è stato proprio questo l’aspetto che più ho amato della Norvegia. La civiltà delle persone che la popolano. Il poter abbandonare, anche per intere giornate, la propria bici per godere a pieno di quello che questo mondo ha da offrire. Non è possibile concepire infatti la magnificenza della Scandinavia dei fiordi solo battendo ruota su asfalto. C’è bisogno di scalarle quelle montagne, raggiungendo il loro culmine, osservare il mondo da prospettive differenti, prospettive poco consone a chi, come noi è abituato a vivere con “i piedi sulla terra”.
Capii in quel preciso istante che ero finito forse nel posto più incredibile al mondo. Un luogo in cui il concetto di magnificenza si azzera perché impossibile da quantificare. Un posto in cui colori, forme e dimensioni delle cose prendono strade diverse unendosi poi in un unico e complesso arcipelago. Fu proprio questa la prima impressione che ebbi una volta che quel ferry mi portò a Moskenes, primo attracco per Lofoten Island, da Bodo, in cinque ore di attraversata.
Una terra non facile da pedalare. Pioggia, freddo, vento contro. Coltri di nubi che rendevano impossibile alla vista la fine di un passo. Paesaggi surreali che mutano chilometro dopo chilometro, man mano che il grande Nord si avvicina. Un verde di un verde mai visto prima. Con l’unica certezza che dopo una dura salita arrivava una altrettanto dura discesa e tra le due un panorama senza eguali nel mondo.
Un viaggio durato due mesi, in cui l’unica parola chiave è stata “solitudine”. Quella sana, forte, che ogni tanto è bene saper accogliere. Un ritorno all’essenziale. Solo con me stesso e con quella Pachamama che mi ha fatto respirare una libertà che è possibile ascoltare solo in queste terre desolate, selvagge, lontano da tutto, dove il tuo tutto diventa quelle poche cose che hai e che in molti casi, vanno oltre il materiale. Quella Pachamama che ti dà la possibilità di capire quanto è magnifico il mondo che ci circonda e che a volte dimentichiamo di apprezzare; che ti dà l’opportunità di capire qualcosa in più della vita. Quella Pachamama che a più battute ho lasciato e poi ripreso, per essere accettato da un popolo che mi ha aperto le porte di un mondo per me nuovo, quello dell’ospitalità.
Partito con l’inconfutabile certezza di far terminare il mio moto lento su quella lingua di terra, definita da tutti il Nord più estremo del nostro continente Europa, mi ritrovo a dover ricalcolare i miei piani di partenza 150 metri prima del grande mappamondo in ferro. Sono rimasto attonito alla vista dei numerosi turisti accorsi: a questo punto il mio Caponord me lo stabilisco da solo. Il mio Caponord è la mia pace interiore. Quell’infinito che non cerco in un posto ma in me stesso. Quell’infinito che ho trovato 150 metri prima o poco più.
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