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Siamo arrivati a Naxos da Scilla ed oggi,
giorno 7, ci regaliamo un giorno di riposo e visita a Taormina
Il camping Almoetia ci invita a rimanere, a rilassarci, a prendere le cose come vengono: abbiamo scelto questo posto come punto di appoggio per la scalata dell’Etna, per poi non scegliere con precisione il momento dell’impresa.
E così la mattina scorre via tra panni lavati e scrittura diari, bagni in spiaggia e riposo generale. Io e Piero proponiamo addirittura una scalata del vulcano in notturna, ma troppe incognite rendono questa ipotesi sconsiderata perfino per noi. Agnese nel frattempo deve impacchettare le sue cose e tornare a Roma per questioni di lavoro. Cercherà di raggiungerci nei giorni successivi. Prima che arrivi il suo treno, nel tardo pomeriggio, io, Massimo, Piero e Giuseppe la accompagniamo a Taormina e poi in stazione.
Tauromenios, la “roccia a forma di toro” protesa verso le profondità joniche,
è la prima colonia greca sull’isola di Sicilia. Inerpicata sulla sommità di un capo costiero, col suo teatro si affaccia su una delle più belle balconate di questa sponda.
E purtroppo non piace solo a noi: il suo fascino l’ha resa preda del turismo di massa e per arrivarci ci tocca affrontare qualche chilometro di tornanti tormentati dalle faticose svolte degli autobus turistici.
Tutti l’hanno amata, tutti l’hanno bramata: dai Siculi, suoi originari abitanti, ai Cartaginesi, fino ai Greci che scelsero questa vallata piena di alberi e bestiame per la loro prima colonia, Naxos, e ai Romani, che ne fecero una civitatis nobilis. Arrivati in cima, però, ci si aprono le porte dell’antica cittadella, e l’atmosfera è proprio quella che ci si potrebbe aspettare nell’immaginario del folklore siculo: il duomo, la chiesa, la fiumana di gente. Incrociamo un matrimonio: odore di acqua di colonia e ciocche di capelli femminili raccolti con ordine minuzioso, o intrecciati con pazienza per la sacralità del giorno. Tacchi che faticano sul basolato di pietra lavica.
Il teatro di Taormina domina tutta la costa, sia a nord che a sud.
Con le sue geometrie ricurve, si incastona perfettamente nella roccia, creando un unicum tra natura e prodotto umano.
Sullo sfondo, l’Etna fuma.
Ci vediamo domani. Accompagniamo Agnese in stazione, che è un edificio affascinante di art nouveau, con reperti storici di anfore e statue nella sala d’aspetto. Ci avviamo verso il campeggio che è già buio. Uno stereo in piazza passa “Despacito”.
giorno 8 – la scalata dell’Etna
Chi ama il ciclismo deve fare i conti col fascino delle salite, nel bene e nel male.
Quando poi la montagna in questione è un vulcano, il fascino diventa un vero e proprio magnetismo, una sacralità.
La montagna respira, la montagna vive. Poco più di un anno fa scalammo il Vesuvio. Ricordo con precisione la sensazione di fatica che andava oltre il lato fisico: tre forature, aria pesante, come se ci stesse ostacolando. “Ci risucchierà, sta sghignazzando”, diceva allora Piero, come se il Vesuvio fosse indispettito dalla nostra presenza soltanto vedendoci arrivare.
L’Etna è tre volte più grande, così grande che nemmeno ci ha calcolato.
Iddu è immenso, dorme, è severo e solenne,non ha bisogno di misurarsi con degli scarafaggi come noi. Oggi il gruppo si divide in varie parti: dopo il ritorno a Roma di Agnese di ieri, stamattina ci raggiunge Fiorella. Massimo parte in solitaria e senza fretta verso Acireale, Giuseppe si sveglia prima e tenta la scalata qualche ora prima di noi. Io, Piero, Giancarlo e Fiorella andiamo su. Su dove? Da Iddu.
A proposito di Giuseppe: ci sta inseguendo da quando è iniziato il viaggio. E’ partito da Battipaglia e ha cercato di riprendere le nostre prime due tappe condensate in una all’ultimo momento; ci ha preceduto nell’arrivo allo Stretto di Messina, per poi imbarcarsi dopo di noi, perso dietro a forni caratteristici, salvo poi essere scambiato per un traghettatore della Caronte & Tourist e aver autorizzato l’accesso di più automobili sulla nave; ci ha preceduto a Taormina, per andare a trovare la zia al cimitero, per poi sbagliare strada e farsi due volte la salita. E oggi, mentre noi indugiamo a Giarre per cercare assieme a Fiorella un posto dove farle lasciare i bagagli per il tempo della scalata, lui è già a Zafferana. Mentre aspettiamo il suo treno alla stazione, un individuo grasso e calvo ci avvicina con fare gioviale. Canticchia, ha un sorriso ambiguo, è incuriosito da noi. “Aspettate una donna che viene in bici con voi? E voi siete tre, come si fa?”
Natale, questo il suo nome, si offre di custodire i bagagli nel suo furgone, “Io sto qua tutto il giorno”, ma quando lo vediamo caricare gruppi di ragazzi africani venuti a vendere merce nelle spiagge, pensiamo che forse non è proprio il tipo adatto. Il trafficante di migranti, ce mancava. Troviamo la soluzione in una pizzeria della stazione, dove Fiorella alleggerisce il suo carico per questa sua prima giornata. La pianificazione di orari e tappe è sempre un aspetto importante. Infatti noi, furbi come al solito, ci becchiamo il caldo della mattinata.
“Sull’Etna è fresco, copritevi eh” Come no, 31 gradi e passa,
e sono già le undici.
Passiamo alcuni paesi etnei che espongono cartelli, santini e colate laviche delle annate più notevoli. “Colate del 1991”, “Ex voto per l’eruzione del 2001”, e così via. La sensazione di vivere su una terra in perenne movimento deve dare energia e sfiducia nel domani al tempo stesso. Saliamo. Saliamo. Saliamo ancora.
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La cima è sempre lì, sempre alla stessa distanza,
quel filo di fumo bianco testimonia il disinteresse di Iddu per i nostri sforzi. Iddu dorme, e noi cerchiamo di avvicinarci disegnando volute circolari.
Ci fermiamo a Zafferana per mangiare qualcosa
e un forno artigianale provvede al nostro smodato desiderio di Sicilia. Rustici e arancini, un melone bianco da spaccare in quattro e il pranzo è servito. Saliamo, di nuovo, con improvvisi muri e illusorie spianate. Il paesaggio cambia gradualmente: dai boschi e la vegetazione rigogliosa prima di Zafferana Etnea, si fa sempre più lunare e arido.
Rocce nere e porose, ex crateri, grotte scavate dalla lava.
Incontriamo un ciclista che si allena per una randonnée, che ci anticipa le sorprese della salita: “Quando il paracarri arrugginito finisce, sarete arrivati”. Il che equivale a dire più o meno a “Sarete arrivati quando sarete arrivati”. Ma dove ci troviamo?
Etna era una dea della mitologia greca, figlia di Urano e Gea, del cielo e della terra.
Viveva all’interno di questo monte che oggi scaliamo con tanto sudore, e faceva da arbitro nelle continue dispute tra Efesto e Demetra per la Sicilia, terra di vulcani e frumento. Ma non era lei a causare le eruzioni: fuoco e fumo provengono dal drago Tifone, figlio di Gea e Tartaro, strumento della vendetta dei Titani contro gli dei. Infatti la Terra, delusa per la sconfitta dei suoi figli, chiese tramite Era di ottenere rivalsa presso Crono: questi si masturbò su due uova, che avrebbero generato un demone capace di spodestare lo stesso Zeus. Tifone viene descritto così:
« […] aveva membra smisurate, era metà uomo e metà bestia. Aveva la testa d’asino, le ali da pipistrello ed era più alto della più alta montagna del mondo. Con le mani riusciva ad acchiappare le stelle e con le gambe riusciva ad attraversare il mare Egeo in 4 passi dalla penisola Ebea fino alle spiagge di Troia. Sulle spalle aveva 100 serpenti che invece di sibilare, a volte latravano come cani, a volte ruggivano come leoni. Ognuna delle gambe era formata da due draghi attorcigliati, orribili a vedersi che facevano capolino con le teste, da dietro le anche. La sua barba e i suoi capelli ondeggiavano al vento e dagli occhi fuoriuscivano lingue di fuoco e lui sputava di continuo massi incandescenti. »
(Luciano De Crescenzo, Zeus – Le Gesta degli Dei e degli Eroi)
E mentre sudiamo verso la vetta, l’alito fetido di Tifone ci rende meno sopportabile la scalata. Tutto è nerastro, l’ombra della vegetazione dei primi chilometri di salita è un lontano ricordo, passa una macchina ogni tanto a ricordarci che l’umanità esiste anche qui.
Un chioschetto di limonate annuncia l’ultimo sforzo per la meta:
il rifugio Sapienza, a 1912 metri, e i crateri Silvestri, a quasi 2000, fanno il tramite tra le bocche del vulcano, mille metri più in su, e l’immensità jonica sotto di noi. Qui incrociamo Giuseppe, che si trova in vetta da ore: non poteva muoversi a causa di una foratura e aspettava qualcuno di noi per una camera d’aria di ricambio.
Lo spiazzo del Rifugio Sapienza è un mucchio di bar e negozi di souvenir.
Viavai di pullman e jeep che salgono in vetta, qualche motociclista si ferma avvolto nei suoi stracci di pelle nera. Ci aggiriamo tra i crateri, ebbri della scalata. L’aria è rarefatta. E poi, la discesa. Un’unica catabasi da 2000 metri al livello del mare, in poco più di venti chilometri. Un tumulto di venti, paesaggi troppo veloci da goderne, tornanti, e il consueto effetto-scivolo moltiplicato per una lunghezza infinita: davvero ho fatto tutto questo in salita, poco fa?
Divorare in pochi secondi quei metri conquistati tanto faticosamente ti dà un’idea dell’energia potenziale accumulata. E del fatto che tutto è relativo. La lunghezza della discesa riscalda i cerchi e fonde le camere d’aria: Piero fora due volte per questo motivo e solo a fatica riusciamo a guadagnare il nostro campo base, comprando altre camere d’aria a Giarre e ritornando nel buio alle tende. L’impresa di oggi va celebrata, e una cenetta a base di pesce e vino bianco a bordo mare è doverosa. Gli effetti sono devastanti: la stanchezza avvolge tutti, e questa terza e ultima notte ci sorprende in uno stato pietoso. Piero si addormenta in tenda da seduto, coi panni da lavare ancora in mano.
Reportage di Claudio Mancini
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