la fatica di riprendere la strada dopo il giorno di relax
Dopo una dozzina di giorni di viaggio, un giorno di riposo ci ha fatto bene e male al tempo stesso.
Bene, perché ci ha dato il tempo di guardarci e osservare i segni che la Strada ha lasciato sui nostri corpi e sulle nostre menti. Le convenzioni sociali e le barriere interpersonali tra noi cinque sono stati cancellati dai chilometri e dalle necessità del nomadismo, cadendo una dopo l’altra come carte impilate in un castello; sulla pelle bruciacchiata e sui vestiti logori invece portiamo i segni dello sforzo, del sole, del vento, i tatuaggi di grasso di catena sui polpacci.
Male, perché non si cade finché non ci si muove: basta un giorno di stasi per far distendere i muscoli, far venire a galla l’abulìa.
Mytikas è avvolgente, suadente, sono due notti che siamo qui e ci sembra di viverci e conoscere tutti gli abitanti uno per uno: un signore anziano che ha perso entrambe le braccia mi appoggia una delle estremità rimasta sulla spalla augurandomi buon viaggio. Non mi fa alcuna impressione, solo molta empatia e tenerezza. Continua a parlare in greco, io gli rispondo nelle tre o quattro parole di greco antico che riesco a trovare nella memoria, anche lui pare capire, sorride e se ne va.
Ma l’incantesimo va spezzato: carichiamo armi e bagagli e ci rimettiamo in cammino. La tappa di oggi è molto lunga, più di cento chilometri, e per rispettare la tabella di marcia dobbiamo assolutamente raggiungere l’imboccatura dello stretto di Corinto, e accamparci dalle parti del ponte che collega Rio ad Antirrio.
Quando da bambino disegnavo i confini geografici dell’Europa, di solito risalivo con la matita le coste adriatiche di lì tracciavo il contorno frastagliato di quelle croate, poi mi preparavo con un’anonima linea curva a saltare l’Albania e a marcare per bene le forme caratteristiche dello Stretto di Corinto. Non potevo certo immaginare che dietro quel segno frettoloso sulla carta si celasse tanta bellezza.
Così, si riparte.
L’alba ci coglie già (quasi) pronti, ma il rito calorico della colazione ci impone un’ultima sosta a Mytikas. Con l’ultimo grido disperato Mytikas-Calipso tenta il tutto per tutto, ci confonde, si contorce, al punto da darci l’impressione che la strada di uscita del paese sia circolare e ci riporti di nuovo al campeggio. Massimo invece è già andato avanti, grazie alla sua abitudine di fare colazioni scarse o quasi nulle.
Il tratto di strada tra Mytikas e Astakos è di una bellezza imbarazzante: coste di roccia rossa a picco sul mare, là dove greggi di capre si guadagnano il transito sfidando la gravità con gli zoccoli, forme curviformi e isolette sparse in maniera affascinante e casuale. Più giù, altre isole, tante da confondere l’orizzonte e il concetto stesso di terraferma. Un terreno sul mare ospita sculture di creta e cemento raffiguranti animali e altri oggetti, probabile traccia di una coppia di fricchettoni in ritiro.
Astakos – località turistica, non piacevole, al centro di una ripida baia che sarebbe potuta essere bella se non avesse avuto l’ingrato compito di ospitare gli imbarchi per Itaca.
Per evitare sforzi disumani, decidiamo di accorciare la tappa con un breve tratto di pullmann, da Astakos a Etholiko. Reperire informazioni nella bolgia di imbarcatori in fila col motore acceso non è facile, ci mandano da una parte all’altra in cerca dei biglietti, poi un signore antipatico e scostante ci dice che non possiamo caricare le bici in autobus. La moglie tentenna, dice di attendere di parlare col conducente, lui continua a parlare velocemente in greco e a scuotere la testa. Tutto attorno, impera la confusione fatta di turisti cafoni, bambini urlanti, vezzose adolescenti nordeuropee protette da cappelli di paglia e occhiali riflettenti.
Massimo nel frattempo è andato ancora avanti.
Nella mezzora di pullmann, prevale il sonno, che fa oscillare le nostre teste da una spalla all’altra, con brevi sprazzi di lucidità.
Arriviamo a Etholiko per le 14, Massimo ci attende steso in un’aiuola erbosa proprio al centro dell’abitato, che è interamente circondato dalle acque. Il paese si trova infatti in un lembo di terra circolare al centro di una baia, tagliata soltanto da una lingua sabbiosa sulla quale scorre la strada. Un ponte sul mare che le dà la parvenza di un’isola.
In quella sorta di oasi disperata e torrida passiamo le ore più calde. Al bar di fronte, una ragazza gentile ci rifornisce di acqua e ghiaccio.
Massimo riparte ancora una volta in anticipo, la mano dolorante e le ferite che faticano a cicatrizzare per il sudore e il caldo.
Noi indugiamo un altro po’: pane, feta e pomodori sull’erba, e si riparte.
Il tratto successivo è occupato da interminabili rettilinei tra le saline, immersi in un odore pesante e massiccio di mare morto. Attratti dalla vastità piatta dell’orizzonte, prendiamo un sentiero interno per fare qualche foto, e ci troviamo un’anziana coppia di tedeschi a mollo nelle acque salmastre. Ci vedono, ci salutano, ci incitano a tuffarci. Come esimersi? Contro ogni buonsenso dapuntualità (mancano ancora 50 km alla meta e sono le 17.30) e da condizioni (l’acqua è salatissima, e non ho modo di cambiarmi), prendo la mia decisione.
Senza troppo pensarci, ancora coi calzoncini e mutande mi tuffo nel sale puro. Chiazze bianche si disegnano sul mio corpo.
Non contento, il signore prende dell’argilla nera e me la spalma addosso. Fa bene alla pelle, dice. Da fantasma divento indigeno, il nero dei calzoncini si confonde con quello del resto del corpo.Il sale trionfa, e mi ci abbandono.
Ormai in estasi, i due anziani coniugi ci indirizzano nella pozza vicina: acqua sulfurea a 80 gradi per sciacquarsi dell’argilla. Galleggio con più di metà del corpo fuori dall’acqua, il sale mi spinge verso l’alto in pose ridicole.
Sono ormai le cinque passate quando ripartiamo, io sono una statua di sale biancastra e impiastricciata che fatica anche a usare le articolazioni, il bianco si cristallizza ovunque, l’argilla fa il resto. Corro per il rettilineo miracolosamente alleggerito da questo mio nuovo assetto, e macino i 6 o 7 km successivi a 35 all’ora.
Ci ritroviamo quindi nei pressi di una superstrada: pare la Pontina. I tir sfrecciano sferragliando, il limite è 90 all’ora, quindi i mezzi superano i 100. Decidiamo di evitare questa via più diretta per stradine. Intanto riceviamo messaggi allarmati da Massimo, che ci dice di non prendere quella specie di autostrada.
La deviazione per campi ci porta in non-luoghi semiabbandonati e degradati, sembra di percorrere le parti periferiche del GRAB. Villini di cemento abbandonati, canali marcescenti, canneti senza scopo. Al centro della strada di questo non-luogo, una non-signora porta a spasso il non-cane.
Laura scatena e rimane indietro, i due ragazzi della villa di fronte la invitano a sciacquarsi le mani all’interno. Quando torniamo indietro per cercarla, poi, ci accolgono tutti per rifornirci d’acqua e per quattro chiacchiere. La loro gentilezza quasi tribale stride con le mie scarpe impregnate di sale e acqua dall’interno, che emettono suoni da papera a ogni passo. La moglie del capofamiglia mi vede, e prende lo straccio in silenzio.
Ripartiamo, sono le sette e manca una trentina di chilometri. Ma c’è ancora una superstrada e uno scollinamento di mezzo. Il buio può diventare un problema. Due ore a quindici all’ora sarebbero ragionevoli con una strada normale, ma così diventa una scommessa.
Tirando per stradine entriamo a Missolonghi, paese il cui sviluppo sembra essere stato fermato dalla soppressione della linea ferroviaria, i cui binari coperti di erbacce ancora svettano come vanto cittadino. Un cane corre dietro a un camion che vende frutta, bambini giocano disordinati. Un signore dai baffi pronunciati ci avverte di stare “en tè dexià”, sulla destra, ma ci rassicura sul fatto che la superstrada si può fare.
Non troppo convinti, ci mettiamo in fila indiana con le luci accese, chiamando a gran voce gli arrivi dei mezzi più pesanti. Agnese, Fiorella, Laura e io che chiudo la coda. Si arranca con le ruote incollate alla striscia bianca, ma la situazione non è drammatica, finché c’è luce si può fare.
Riusciamo a evitare altri tratti di superstrada per stradine secondarie nei pressi dello scollinamento: ci ritroviamo quindi in una strada sterrata tra gli ulivi e la terra rossa, dove il sole morente dipinge ombre lunghe e ravviva le tinte: siamo nel bel mezzo del cantiere autostradale che sventrerà questa valle incredibile nel giro di un anno, come ci dice un mountain biker di passaggio. Salutiamo il passaggio di mezzi pesanti e betoniere, cercando di limitare l’impatto delle bici più leggere con il fondo sassoso e le ripide pendenze.Sono quasi le otto,comincia a imbrunire, ci manca una ventina di km e non sappiamo ancora dove andare a dormire, ma il tramonto è così bello che ogni problema si deve necessariamente risolvere – in maniera automatica, magari, ma si deve risolvere.
Anche questa stradina ci ributta sul corso principale, abbiamo scollinato e la luce del mare ancora bagnata di sole ci offre ancora un po’ di autonomia: la strada a strampiombo si tinge di grigio, giallo, blu, poi dei led rossi degli stop dei camion. Ancora una discesa ed è il buio. Deviamo per il lungomare, poco importa se ormai la campagna è tutta nera, abbiamo buone luci e siamo lontani dal traffico. Cerchiamo Massimo per i placidi lungomare prima di Antirrio, lo troviamo nei pressi del porto, ma decidiamo di prendere una stanza. Lui, dopo 124 km praticamente in solitaria, preferisce le onde e la spiaggia all’addiaccio.
IL CINGHIALE CALIDONIO
Le verde e montuose terre d’Etolia celano miti sinistri e ancestrali, legati al culto della caccia e dei boschi. Per questo, la dea protagonista della giornata di oggi non può essere che Artemide, che col suo carattere schivo e suscettibile agli amori promiscui degli dei preferiva vagare da sola per le selve, preservare la sua verginità e andare a caccia.
E proprio questo carattere suscettibile sarà la causa di molte sventure per la città di Calidone.
Il re della città, Eneo, non aveva esattamente un buon carattere: uccise a mani nude il primo figlio che sua moglie Altea gli diede, Tosseo, perché aveva osato saltare con impudenza il fossato scavato a difesa della città. Una volta si usava mandare a letto senza cena, lui uccideva direttamente a mani nude.
Col secondo, Meleagro, furono più cauti: a parte il fatto che taluni sostengono fosse figlio di Ares e non suo – e sorvoliamo, magari il cattivo umore del re era pure giustificato – l’infanzia del piccolo fu segnata da avvenimenti sovrannaturali. Quando Meleagro compì il settimo anno d’età, infatti, le Moire apparvero alla madre Altea, annunciandole che suo figlio sarebbe rimasto vivo fintanto che un certo tizzone non fosse bruciato completamente.
E Altea – mica scema – tolse subito il tizzone dal fuoco, lo spense e lo nascose in un luogo sicuro. Questo permise al giovane Meleagro di crescere forte, sano e soprattutto invulnerabile, dote che lo rese uno dei più valenti guerrieri e cacciatori della zona.
Ma come in un ogni storia in cui tutto va bene – a parte certi primogeniti strozzati a mani nude – ecco che arrivano i problemi: Eneo, sbadato com’era, nel compiere gli annuali sacrifici ai dodici dei dell’Olimpo, dimentica fatalmente Artemide.
“E che ho io, la scarlattina?”, pensa la dea offesa, e come promemoria per il futuro manda un cinghiale gigantesco nelle selve di Calidone, a devastare i raccolti e uccidere chiunque si pari sulla sua strada. Forte delle sue dimensioni straordinarie, la belva scorrazzava indisturbata, portando calamità e distruzione nella zona.
Eneo mandò allora araldi in tutta la Grecia, per invitare i migliori guerrieri dell’Ellade a partecipare alla più grande battuta di caccia al cinghiale della storia: e la sera, braciolata per tutti i partecipanti.
Aderirono alcuni dei più valenti eroi del tempo: Castore e Polluce, i gemelli, Teseo il vincitore del Minotauro, Giasone l’argonauta, Ificle di Tebe, e la fanciulla Atalanta d’Arcadia, unica donna della compagnia, unica figlia di Iaso e Climene.
Occhio alle quote rosa, perché Atalanta, abbandonata in fasce sulla collina Partenia perché il padre avrebbe voluto un maschio, era protetta da Artemide in persona e con la dea aveva più d’una cosa in comune: oltre infatti a essere dotata di abilità venatorie fuori dal comune, correva come una gazzella ed evitava gli amoretti giovanili evitando gli uomini.
Alcuni cacciatori come Anceo e Cefeo si rifiutavano di cacciare in compagnia di una donna, ma il figlio del re Meleagro minacciò di annullare tutta la battuta, già innamorato della fanciulla e desideroso di farsi notare agli occhi di lei. E così, tra la confusione amorosa e la brama della competizione per la pelle dell’animale, iniziò la battuta di caccia sotto i peggiori auspici.
Il primo sangue versato, infatti, fu umano, o semiumano perlomeno: i due centauri Ileo e Reco, vedendo Atalanta nel bosco, tentarono di violentarla, ma la cacciatrice li fulminò con le sue frecce.
Il gruppo di cacciatori stanò il mostruoso animale nei pressi di un corso d’acqua, mentre si abbeverava. Cominciò allora la lotta: il cinghiale attaccò per primo, uccidendo due cacciatori e ferendone un terzo, mentre Giasone e altri mancavano il bersaglio coi loro giavellotti.
Ificle soltanto riuscì a ferire alla spalla l’animale, mentre Telamone inciampò a terra. La bestia, resa ancor più furiosa dal dolore, mosse scalpitando contro di lui, e stavolta fu Atalanta a colpirlo con una freccia all’orecchio: con un grugnito tremendo, il cinghiale arretrò, mentre un fiotto rosso di sangue gli colava dal collo.
Anceo, quello che si rifiutava di cacciare con una donna, lo attaccò allora con l’ascia, ma fu sventrato e castrato dalle sue zanne; Peleo nella confusione colpì a morte Eurizione, nemmeno Stanlio e Ollio sarebbero riusciti a far meglio.
A quel punto Anfiarao accecò l’animale con una freccia, e Meleagro riuscì a conficcargli una lancia prima nel ventre e poi nel cuore, facendolo finalmente accasciare a terra esanime.
Ma questo sangue avrebbe chiamato altri fiumi di sangue.
Meleagro scuoiò immediatamente il cinghiale e ne donò la pelle ad Atalanta in atto di palese zerbineria piaciona, sostenendo che fosse stata lei a versare il primo sangue e attribuendole il merito dell’uccisione. I due zii di suo padre Eneo, però, si opposero a questa decisione, e per tutta risposta furono uccisi da Meleagro in un impeto d’ira. Mi sa che la braciolata stasera salta.
Altea maledisse allora suo figlio, che aveva portato la morte in famiglia per colpa di una squinzia che tira con l’arco, e riprese il famoso tizzone legato alla vita di Meleagro dandogli fuoco, e troncando anche la sua vita. Poi per il rimorso si impiccò. (Ho perso il conto dei morti, ma mi ricorda un po’ la fine di Amleto)
Nel frattempo Iaso, padre di Atalanta, esultante per la vittoria di sua figlia finalmente la riconobbe (“ah, solo adesso? Grazie papà, eh”), e preparò le nozze per lei, non volute peraltro. Oltre alle tendenze solitarie della fanciulla, un oracolo della vicina Delfi le aveva infatti consigliato di non sposarsi.
Atalanta propose così una condizione dura e sadica ai suoi pretendenti: “Padre, io acconsento alle nozze, ma solo con il pretendente che riuscirà a battermi in una gara di corsa. E se non ci riesce, sarà ucciso”.
Dopo molti principi dal passo troppo lento per sopravvivere, fu il giovane Melanione che si ingegnò con un piccolo aiuto divino: richiese infatti l’intervento di Afrodite, che quando si tratta di far ammucchiare qualcuno è sempre ben disposta a dare una mano. La dea donò al giovane tre magici pomi d’oro, da lanciare durante la corsa con Atalanta: i pomi distrassero per incanto la fanciulla, che perse tempo per raccoglierli, e permise a Melanione di vincere la gara.
Ma non c’è tregua né mai una gioia per i mortali che si devono accoppiare, specie se lo fanno in luoghi proibiti: vedi la differenza, gli dei si ammucchiano qua e là coi mortali e tra di loro come capita, loro al primo sgarro la pagano cara. E così gli sposini novelli Atalanta e Melanione si appartano in un boschetto sacro a Zeus, che li trasforma in due leoni per non poter più godere l’uno dell’altra.
Reportage di Claudio Mancini