diciottesima tappa della #RomAtene e l’arrivo alla meta del viaggio, le ultime pedalate da Vilia ad Atene
Ogni viaggio ha un epilogo, a meno che non si scelga l’eterna condanna dell’Ulisse dantesco. Che poi a pensarci bene un epilogo c’è anche lì. E così, in cerca di virtute e canoscenza, oggi ci tocca l’ultima tappa, quella verso Atene.
E che dovesse necessariamente essere triste lo sapevo già, ma non pensavo così: per Fiorella il viaggio in bici è finito ieri sera, alle pendici del Monte Citerone. La sua gloriosa Benotto verrà caricata alla meta in bus, con una ruota priva di sette o otto raggi e lo scotch per farla almeno girare e portarla a mano. Un po’ d’amarezza, ma meglio che sia capitato a 5 km dall’hotel della penultima tappa invece che a metà viaggio – o anche in cima al Citerone, tra le nebbie.
Facciamo colazione al forno del paese, ci diamo appuntamento all’albergo dove già si trova sua sorella e ci incamminiamo a ritroso verso il bivio che ieri ha deciso la nostra deviazione per Vilia. E salutiamo così il penultimo posto da chiamare casa del nostro viaggio.
Oggi Eolo ce l’ha con noi: vento forte e contrario per quasi tutto il tragitto, sia in discesa che in salita. Il lato positivo è che mitiga il caldo.
Affrontiamo le ultime salite per Agio Sotiras, la strada nazionale non è troppo trafficata; gli ulivi ci accompagnano anche in quest’ultima porzione di viaggio, mentre svalichiamo le ultime colline dell’Attica.
Una discesa più lunga delle altre, torna l’afa e con lei il mare. Le alture rocciose e aride lì davanti sono il promontorio di Capo Sunio, quell’isola alla nostra destra è Salamina – sì, proprio quella Salamina che udì gli strazianti lamenti dei Persiani massacrati a colpi di remo dagli Ateniesi di Alcibiade, dopo la storica battaglia vinta grazie alla tattica.
Giungiamo così a Eleufsina, città brutta e poco curata, che quasi ti fa dimenticare di essere in riva al mare. Il suo sito archeologico mostra le pallide tracce di un passato fiorente, quello di processioni notturne e riti misterici – oggi resti di colonne precipitati a terra sui mosaici. Diamo uno sguardo e passiamo avanti.
Il senso di desolazione aumenta quando dobbiamo incolonnarci nella corsia d’emergenza della nazionale verso il Pireo: camion e asfalto, poche vie di fuga verso la spiaggia. Ne imbocchiamo una per trovarci davanti la piana blu del mare, i tavolini dei ristoranti offrono pranzi con vista petroliere. Proseguiamo per quella che deve essere stata una località balneare, dove camion e gru abbandonate stazionano davanti agli scivoli e alle altalene.
Abbiamo pane, formaggio e altre cose prese al forno di Vilia stamattina, e dato che il posto ci sembra triste proseguiamo per cercarne un altro dove fermarci a mangiare. Pessima mossa.
Infatti nei chilometri successivi ci si para davanti lo spettacolo apocalittico dei casermoni e dei container del porto del Pireo, ancora freschi di acquisto tedesco, ultimo retaggio del colonialismo finanziario.
Nella solitudine assolata del quattordici agosto cerchiamo un varco a bordo mare, per evitare la nazionale: a fianco a noi, soltanto una stazione di servizio, dove svetta l’insegna di un bar chiuso. Tricolore italiano, scritta “COSA NOSTRA CAFE” e l’immagine di un mafioso che al posto della lupara punta una tazzina di caffè fumante. Passiamo oltre.
Veniamo rimandati indietro al passaggio a livello della zona militare del porto, i due giovani ufficiali ci dicono senza sorridere che possiamo seguire la strada parallela, ma che ci conviene stringere i denti sulla nazionale per altri 8 km e siamo ad Atene.
Tornando indietro, ci fermiamo nel più triste dei marciapiede di cemento, e lì apparecchiamo il nostro pasto a base di pane, formaggio e qualche dolce di forno. Il tempo di tagliare il cacio, che appaiono dei cuccioli di cane neri: uno, due, cinque. Ci circondano coi loro guaiti affamati, si avvicinano al cibo, poi compaiono i loro genitori abbaiando. Il tempo di incartare tutto alla rinfusa e lasciamo il nostro pasto a metà, inseguiti da cani troppo deboli per fare paura e troppo molesti per farci mangiare.
Stretti tra camion, randagi e militari, facciamo la nostra scelta e preferiamo i primi: ultimi km in salita, poi discesa fino a Keratsini.
La vigilia di Ferragosto ci vede sfilare tra i negozi di motociclette e i pochi negozi arabi rimasti aperti, i superstiti all’esodo ci guardano come alieni mentre attendono bus inesistenti alla fermata. L’ingresso in una città va sempre guadagnato con sofferenza, e il senso di tristezza per la conquista della capitale greca ci attanaglia. Su uno stradone che sembra la Togliatti, deserto nella calura estiva, un camioncino di zingari sfreccia passando musica dance assordante. Sul bagagliaio è montato un supporto metallico che lo trasforma in una sorta di casa a motore, c’è tutta la famiglia dietro. Quando Agnese le scatta una foto, la grassa donna sul retro le urla qualche imprecazione. Prime strade di Atene: nessun cartello di ingresso da sud. Fanno la loro comparsa i primi edifici umani e negozi, alcuni sfitti, altri chiusi per ferie; passiamo davanti alle inferriate di una villa chiusa, e attraverso una finestra all’improvviso la vedo.
L’Acropoli. Gialla e solitaria, sta lì a dirci che il viaggio è finito. Contemplare una meta porta con sé un senso di solenne disperazione, bisogna assumersi tutto d’un tratto la responsabilità di ogni chilometro percorso, come se quella visione dovesse giustificare tutta la fatica. Hai fatto tutto questo per vedere quelle quattro colonne in croce?
Sì, no. Non solo.
Accantonando queste domande nel pomeriggio pigro, proseguiamo verso il centro e l’hotel di Fiorella&sorella, ovvero Marika: il tempo di stampare i biglietti per l’indomani e ci cerchiamo un posto vicino a loro, tanto ormai abbiamo capito che i costi per una stanza sono pressoché gli stessi di un campeggio, e possiamo concedere al lassismo quest’ultima notte prima dell’epopea dell’aeroporto. Troviamo una tripla all’Hotel Rio – non si capisce se quella brasiliana o quella greca, vicino Patrasso – una pensioncina modesta ma comoda.
La signora alla reception ci illustra i punti di interesse con dei segni di matita sulla cartina, poi ci avverte riguardo al ferragosto greco: domani è tutto chiuso ragazzi, anche il museo e l’Acropoli.
Cioè, mi stai dicendo che abbiamo fatto 1437 km per vedere il Partenone da fuori? Ma io ti stacco la capoccia.
Se fate in tempo, chiude alle otto di sera, al tramonto è molto bello, continua la signora con noncuranza e distacco – è evidente che tra le sue preoccupazioni non c’è il nostro soggiorno ad Atene, di sicuro c’è l’incasso della stanza già occupata.
Priorità, fretta, minuti contati: la priorità è procurarsi dei cartoni per imballare le bici in aeroporto, oggi già c’è il deserto, figuriamoci se riusciamo a trovare qualcosa domani. Prima i cartoni, poi l’Acropoli.
Su Apollou street si trovano negozi aperti, ci dice Fiorella, e ci fiondiamo con le bici libere dei bagagli tra i fatiscenti vicoli di Psirri. Sbuchiamo all’improvviso su Monastiraki, qui c’è più movimento; proseguendo sulla via d’Apollo, tra i mille odori e colori della capitale notiamo un furgoncino Ape carico di cartoni parcheggiato vicino a un tritarifiuti: due pakistani siedono su un gradino con la sigaretta in mano.
Cerchiamo di spiegargli a gesti che vorremmo acquistare un po’ di quei cartoni. Grandi, ci servono grandi. I due sollevano la pila di cartoni caricati sul retro e ne estraggono i pezzi migliori: dovremo comunque fare un collage per coprire le bici, ma meglio di niente, puntiamo sulla quantità. Poi ci aiutano a caricare il malloppo sulla mia bici, con un’esperienza di fissaggio coi cavi che ci lascia ammirati; quando poi estraiamo il portafogli per offrire loro un compenso, scuotono la mano quasi offesi. Possiamo almeno offrirvi una birra? One beer?
No beer, no beer, problem drive, ci dicono indicando il furgoncino. Coffee? Water? Niente, è inutile insistere.
Sono le sette passate, il sole sta tramontando, l’ultima occasione di vedere l’Acropoli ci sta scivolando via tra le dita e nonostante l’ingombrante carico che rende la mia bici larga quasi due metri tentiamo la scalata in extremis.
Ci facciamo largo tra i turisti e le scalinate mentre i minuti fuggono via, di qua, no, di là facciamo prima, ecco il varco biglietti, vedo ancora gente dentro, no stanno uscendo, un fiume di persone scende venendoci incontro. La biglietteria è chiusa, due inservienti stanno gestendo il traffico in uscita: tentiamo il tutto per tutto.
“We arrived from Rome by bike just to see the Acropolis! Please, let us get in!”
“Sorry, no way, it’s not possible”, ci dice impassibile la signora dietro i varchi.
“Please, just five minutes!”, insistiamo noi.
“Absolutely not, I am very sorry”, ci fa eco lei.
Poi aggiunge: “Come tomorrow in the morning”
Eh?
Siete aperti domani?
Quindi ci stai dicendo che la signora dell’hotel ci ha fatto terrorismo psicologico basato sul nulla?
Imprechiamo ripetutamente in italiano davanti alla perplessa bigliettaia, quasi come se fosse lei la responsabile del nostro astio. Le spieghiamo il perché della nostra reazione, lei risponde sorridente: “No worries, we are waiting for you tomorrow!”
E’ fatta.
La tensione si scioglie nel tramonto ateniese, ci sediamo sulle rocce di fronte all’ingresso ad ammirare quel giallo del marmo pentelico farsi livido, poi rosato, poi rosso acceso.
Il sole illumina al massimo le rovine per una manciata di momenti, poi scompare dietro le colline di Capo Sunio lasciandole ancora fumanti, come dopo un’invasione turca.
Le porte d’Oriente, la culla dell’Occidente. Qui è iniziato tutto, qui finisce il nostro viaggio.
Atene è d’una bellezza disperata, scandisce la sua decadenza con dignità, confonde Pericle e la Grexit, Syriza e Tucidide, la peste e le invasioni ottomane, le scritte sui muri e le icone ortodosse, tutto unito nell’abbraccio di un propileo dorico.
Scende ‘na lacrimuccia nel silenzio chiassoso dei selfie.
E’ fatta.
Pieni d’Atene nell’animo, torniamo a riposarci in albergo prima di incontrare Nikos, mio amico ateniese. E’ proprio lui a consigliarci una piccola trattoria rimasta aperta, gli avevamo chiesto un posto non turistico, uno frequentato dai locali: detto fatto, ci ritroviamo su degli angusti tavolini malamente coperti di tovaglie di carta, nel portico di un palazzo spoglio, davanti a quella che potrebbe sembrare una tavola calda. Nessuna estetica, moltissima sostanza: i due camerieri sono gentili e frettolosi, si scusano del fatto che manchino dei piatti presenti nel menu, ci spiegano che sono in chiusura anche loro per ferragosto. Nonostante questo, per l’ennesima volta veniamo sommersi di cibo, e la liturgia compulsiva della scelta piatti sul menu si consuma tra gli inutili propositi di non esagerare.
La notte non ci trova nei nostri letti, ma a tirar mattino non sazi d’Acropoli: l’abbiamo ammirata al tramonto, domani la vedremo col sole, ma quelle colonne lassù illuminate nel buio andavano ammirate.
La Grecia ha rapito il cuore a più d’uno, non ultimo Ivan Graziani, come canta in Cleo:
Lei diceva sempre l’amore è un dono degli dei
è una colomba che si posa sul tuo cuore
e mentre agosto rosso tremava sull’asfalto
seduti dentro a un bar io l’ascoltavo ancora
E lei ancora mi parlava, “Mio padre vende vino, è solo un commerciante
ma di cose lui me ne ha insegnate tante”
Una ragazza greca ha il cuore più pulito,
una ragazza greca discende dagli dei
Sì ma io non sono Ercole di Lidia
e a seguirla non riuscivo
se volava con la mente
dentro il suo mistero
Cleo, Cleo, Cleo, Cleo
vergine bianca in un tempio
Cleo, Cleo, se davvero tu puoi
scaccia da me queste ombre
io vivo in un paese che confonde
e qualche volta sporca il mio cuore e la mia mente
ma per Giunone e per Mercurio, postino degli dei
via da queste ombre
l’estate qui non dura eternamente
e arriverà il cielo e la pioggia di settembre
lungo i marciapiedi, fra le case e in questo bar
e nel mio bicchiere e dentro me
Cleo, Cleo, Cleo,
peccato che mio padre non sia ricco
ci ho pensato tante volte ma
la strada è lunga da Torino a Salonicco
e in un’altra avventura io non mi ci ficco
Tra qualche giorno qui si rientra tutti quanti
fra qualche giorno qui ricomincia tutto come prima.
Cleo ti sembrerà banale ma, che cosa mi è successo
che sensazione strana, proprio l’altra sera in biblioteca a scuola
ho aperto un libro che parlava degli eroi, ma soprattutto raccontava degli dei
e se penso a te quasi quasi io ci credo
alle processioni in riva al mare,
ai gesti e alle parole
chiusi dentro il tuo mistero
Cleo, Cleo, Cleo, Cleo
vergine bianca in un tempio
Cleo, Cleo, se davvero tu puoi,
scaccia da me queste ombre
io vivo in un paese che confonde
e qualche volta sporca il mio cuore e la mia mente,
ma per Giunone e per Mercurio, postino degli dei
via queste ombre
agosto si allontana lentamente
ed è arrivato il cielo e la pioggia di settembre
lungo i marciapiedi fra le case e in questo bar
e nel mio bicchiere e dentro me
Cleo, Cleo, Cleo se tu farai questo per me io ti crederò
(Ivan Graziani, Cleo)
Reportage di Claudio Mancini