Terza tappa, addio al Tirreno. Dopo il bagno di sole e scogliere a picco nel blu di ieri, il lungo e interminabile rettilineo della via Domiziana che ci attende fino a Napoli non è certo attraente. Ma la strada è tutto quello che c’è in mezzo, mica solo le mete, quelle vanno guadagnate e spesso il pedaggio è fatto di tante cose, più o meno piacevoli.
Dopo aver ,perso il tempo necessario (e anche qualcosa di più) a sistemare l’assetto delle bici – il bikepacking di Agnese dietro la sua sella continua ad afflosciarsi e al mio parafango anteriore manca una vite, così lo fisso prima col nastro e poi con le fascette – percorriamo a ritroso via Sebastiani, che dal borgo alto di Minturno ci riporta sul corso dell’Appia.
Il tempo di una colazione e ci si rimette in sella, rotta verso sud.
Poco dopo la fine del centro abitato, attraversiamo il fiume Garigliano e l’imponente ponte borbonico, confine tra Lazio e Campania. Qui l’Appia è tagliata in diagonale dai resti dell’acquedotto romano che alimentava la fiorente città di Minturnae; ma è giunto il momento di salutare anche lei, almeno per il momento: mentre la statale si inoltra nell’interno in direzione di Sessa Aurunca, a noi tocca seguire il corso litoraneo della Domiziana, strada dal corso nervoso e poco piacevole. Proprio per questo cerchiamo di evitarne più chilometri possibile. Costeggiamo a passo lento l’ultimo tratto di Garigliano accompagnandolo al suo appuntamento col mare, per strade secondarie ombrose nei campi.
La quiete della villeggiatura, di chi è al mare coi figli nei campeggi per due settimane nello stesso posto, ci dona un po’ l’illusione del fatto di non essere in viaggio, ma in posti familiari: empori che vendono materassini da mare e giocattoli da spiaggia, frutta e verdura nelle buste di cartone, pinne fucile ed occhiali.
Ci blocchiamo in una strada privata senza uscita, e la prospettiva di dover tornare indietro sulla Domiziana e perdere 5 o 6 km è faticosa più mentalmente che fisicamente. Per evitarlo, quindi, chiediamo informazioni sulla strada a un anziano signore in carrozzella, che si gode il fresco dei pini davanti casa sua.
– C’è un passaggio, un ponticello… uscite da qui, svoltate a destra e… aspettate: vi accompagno.
Tutti muniti di ruote, a passo di mulo senza impegni, il corteo di 4 bici e una carrozzella elettrica si muove per le stradine bianche fino al passaggio che ci permette di sbucare sulla Domiziana poco prima di Mondragone. Prima di congedarsi e salutarci, il distinto signore ci dà ragguagli paterni, quasi avesse dispiacere a vederci andar via:
– Fino ad Atene, andate? Eh ci vogliono le gambe buone… mo’, se passate per Mondragone, dovete prendervi una mozzarella di bufala al caseificio San Michele, sulla sinistra appena sbucate. Vi fate una di quelle, una spolverata di pepe sopra, una bella birra fresca… (fa il gesto con le mani) al bacio!
Passa in quel momento una signora che porta a spasso i suoi anni con una certa leggerezza, si ferma incuriosita da cotanto spettacolo, si aggiunge alla gara a dare informazioni, ma il signore la blocca con galante tracotanza:
– Signora, io sono 21 anni che vivo qui, lo saprò dove devono andare!
e lei col sorriso sornione:
– E io 38, c’è mia figlia pure che abita qui.
Il vecchio incassa il colpo con il sorriso, noi già immaginiamo il nascere di una storia d’amore della terza età col pretesto dell’assistenza a degli sprovveduti cicloturisti.
Lasciamo i due piccioncini e riprendiamo il corso attufato e bollente della Domiziana: in questo tratto sfrecciano camion e auto a velocità sostenuta, l’asfalto sfrigola, un’unica nube di condensa grigia si improvvisa nostra indigesta compagna di viaggio.L’ingresso a Mondragone ci dà immediatamente la percezione che tutto è diverso, niente è come prima, cultura, lingua, urbanistica.Negozi di bombole e di compravendita oggetti usati espongono vistose insegne dai caratteri goffi, sagome di bufale sbattono letteralmente in faccia il vanto locale, Nostra Signora delle Mozzarelle.
Il prepranzo è inevitabile: bufale affumicate e olive imperano sulla nostra volontà, insieme alle prime birre della giornata. Sono le undici e mezza.
Lasciata l’oasi felice, la Strada chiede il conto: un nastro di asfalto rovente ci costringe al passo costante e indolente. Passiamo mostruosi grattacieli abbandonati dai tempi in cui un’economia fiorente dava impressione di benessere duraturo, che oggi mostrano vetri spaccati come ferite da disillusione.
La costa tra Castel Volturno e Pozzuoli mostra – ostenta – due aspetti dall’origine diversa e dall’esito simile: degrado e decadenza. Mentre il primo è stato concepito già brutto, violento, sbagliato alla sua nascita, la seconda mostra un fascino non sconfitto – anzi accresciuto – dalla sua sconfitta nella lotta contro il Tempo. E così, il paesaggio alterna comprensori di cemento bianco a globi circolari, quasi delle basi spaziali abbandonate dopo una catastrofe sociale ed economica, e insieme splendide facciate fatiscenti di palazzi signorili e tenute agricole, l’intonaco scrostato che conserva ancora un po’ di quella vernice che un tempo doveva essere il simbolo dell’edificio più ricco della città.
In ogni caso, chi comanda oggi è il calcinaccio.
Attraversiamo non-luoghi surreali, fatti di fabbriche sul mare, villaggi turistici e lidi fatti di cemento, così come pinete e villini estivi nei cui giardini imbarazzati dèi romani adornano fontane in disuso.
Sono le 3 quando ci fermiamo al Lido di Licola, poco prima di Monte Procida, per mangiare qualcos’altro e fare un bagno. Il caldo è reso ancor più opprimente dallo smog.
Lo spettacolo di quattro chiassosi individui con le bici cariche allo sfinimento desta curiosità quasi tribale tra gli abitanti: gruppetti di adolescenti ci fermano, il punto interrogativo negli occhi, per chiederci dove andiamo e soprattutto perché.
Passiamo un paio di ore nel paesino, che pare a poco a poco prendere consapevolezza della presenza degli stranieri in città. Sentiamo il peso di sguardi insistenti su di noi.
Un bambino sui 12 anni ci chiede da dietro la spessa montatura verde degli occhiali se possiamo comprare per lui le sigarette al tabaccaio. Lo accontentiamo, consci che questo farà di noi degli idoli ai suoi occhi e dei demoni a quelli di sua madre.
– Le luchi strik alla menta!
La voce si sparge e ne arriva un altro poco dopo, stessa richiesta imbarazzata. Gli stranieri dispensano tabacco!
Un bagno al mare e si riparte – si sono fatte le 7, e Stefano ci aspetta, siamo in ritardo.
Superiamo la salita di Monte Procida che ci porta sulle inquietanti sponde del Lago d’Averno, luogo di riferimento del mito di oggi, le cui acque non si muovono neanche se tira vento. Un silenzio innaturale e grigiastro cala sui colori caldi del tramonto.
Arriviamo così a Pozzuoli e risaliamo verso la Solfatara, Napoli è alle porte ma è proprio questo il problema. Le strade si fanno ostiche, il traffico si ingigantisce, gli svincoli sono sempre più frequenti.
Il ritardo si accumula.
Nei pressi dello Stadio San Paolo, sfreccia una vecchia su una Kawasaki: nell’ilarità generale, Agnese si volta per guardarla, e la sua ruota anteriore sbatte sulle mie sacche facendole perdere l’equilibrio. Piccolo tonfo, per fortuna sa rotolare bene, e la caduta non ha conseguenze.
L’ingresso a Napoli nel frattempo ci mette sempre più in difficoltà: i lastroni disomogenei del tunnel di Posillipo, la vertiginosa discesa verso Mergellina, il concetto di precedenza improvvisata e di conciliazione estemporanea dei guidatori agli incroci.
Giunti finalmente a Castel dell’Ovo, un gentile biker sulla sessantina si offre di accompagnarci in piazza di San Domenico Maggiore, luogo dell’appuntamento con Stefano e Claudio: i due sono conoscenti di Fiorella, che ci raggiungerà tra qualche giorno per unirsi alla brigata verso Atene; cicloturisti e cicloattivisti, un punto di riferimento insomma.
E infatti, oltre alla pazienza e comprensione per il ritardo, Stefano ci rimedia una sistemazione a tema: bici al sicuro dentro i locali del futuro bike café “‘A Pedivella”, noi a dormire sotto le stelle sulla terrazza di casa sua, nono piano senza ascensore, vista sul porto, sdraio, amaca e sacco a pelo.Napoli romba ignara sotto di noi, mentre ci facciamo la doccia all’aperto, al riparo da eventuali sguardi della buoncostume.Il resto della serata lo passiamo tra i vicoli del centro antico, i cui odori viscerali si mescolano alle voci e al tintinnio delle bottiglie. Pizza, fritti e birra intervengono a ristorarci dopo i 92 km di traffico di oggi. E anche stasera siamo a casa.
Con la tappa di oggi entriamo in piena Magna Grecia, tra le colonie greche dell’Italia Meridionale. E ancora prima della fondazione di queste città sulla penisola italica, molte delle vicende mitologiche erano state ambientate da queste parti.
Poco prima di Napoli, alle porte della zona dei Campi Flegrei e delle solfatare, esiste un laghetto costiero dall’aspetto un po’ inquietante, che risente delle terre sulfuree e irrequiete delle camere laviche collegate al Vesuvio. Dalle sue acque esalano vapori mefitici e le sue sponde sono ripide e aspre.
Il Lago d’Averno non è ospitale neanche per gli animali (A-òrnos = senza uccelli), ed è qui che per i Greci e i Latini erano situate le porte dell’Oltretomba.
L’Oltretomba, o Inferi, o Ade, o proprio Averno, non è un posto diabolico di punizione, né fuoco e fiamme ed etterno dolore come la pensava Dante: i pagani avevano una concezione di espiazione più terrena, se sgarri puoi star sicuro che un qualche dio ci pensa a fartela pagare prima della morte, piuttosto decide di esserne causa.
Gli Inferi sono invece un luogo triste, grigio e noioso, sul quale regna Ade: mentre ai fratelli Zeus e Poseidone erano toccati rispettivamente la terra e il mare, lui s’era dovuto accontentare del seminterrato, e soprattutto accusava la mancanza di compagnia femminile. Così, quando si innamorò di Persefone, nata da uno dei tanti amori del fratello Zeus con Demetra, dea delle messi e dei campi, il padre degli dei non volle negare né acconsentire alle nozze, lavandosene le mani: Ade si sentì quindi autorizzato a rapire la fanciulla, che sorprese a cogliere fiori in un prato, e a portarla con sé negli Inferi, scatenando la follia di Demetra.
Dopo averla cercata in lungo e in largo ed aver appreso del rapimento, la dea rese sterile la terra minacciando di far estinguere la razza umana rendendo la terra sterile se non avesse riavuto indietro sua figlia. Invano delegazioni di dèi olimpi cercarono di ammansirla: a Zeus non restò che far recapitare un messaggio ad Ade e a Demetra: “Persefone dovrà tornare tra i vivi, a meno che non abbia ancora assaggiato il cibo dei morti”.
Ade si era rassegnato alla sconfitta, e la fanciulla, che per la tristezza si era rifiutata di mangiare, già pregustava il calore del sole, l’aria di casa e le melanzane alla parmigiana di mamma.Ma proprio all’ultimo uno dei giardinieri infernali, Ascàlafo, fece la spia riferendo di aver visto Persefone mangiare dei chicchi di melograno. Ecco fatto.
Per dirimere la questione, Zeus dispose che Ade avrebbe tenuto con sé quella che ormai era sua moglie per sei mesi l’anno, mentre per i restanti sarebbe stata con sua madre.Da allora le stagioni si susseguono a seconda dell’umore di Demetra, che dipende dalla lontananza di sua figlia; sempre da allora, il melograno è il frutto dei morti, e non a caso è tipico del mese di novembre; e Ascàlafo lo spione? Fu trasformato in barbagianni da Demetra. Vedi che succede a non farsi gli affari propri.
Ma questo luogo ha visto tante leggende susseguirsi, proprio come le stagioni e le vite. Per esempio, all’ingresso dell’Averno, o forse proprio sulle sue sponde, è presente un anfratto che è stato identificato con la grotta della Sibilla Cumana: Deifobe, questo il suo nome, era figlia del dio marino Glauco – a sua volta amante di Circe – e aveva il dono del vaticinio proprio come la sua più famosa collega a Delfi, la Pizia.
E come la Pizia era interpellata dai mortali per conoscere il futuro e il volere degli dei, e sempre come lei era legata ad Apollo da un patto: la Sibilla gli aveva chiesto infatti di poter vivere tanti anni quanti i granelli di sabbia raccolti nel pugno della sua mano, ma avendo respinto l’amore del dio non ottenne un numero di anni di giovinezza proporzionato. Questo la condannò a una vecchiaia quasi eterna, e quando accolse Enea negli Inferi durante il suo viaggio aveva già 700 anni: col passare degli anni Deifobe diventava sempre più piccola e rinsecchita, fino a ridursi alle dimensioni di una cicala, e a desiderare la morte. Proprio all’ingresso del regno dei morti. Who wants to live forever?
A proposito di vivi e di morti: erano pochi, pochissimi i vivi ai quali era concesso di visitare l’Oltretomba. Alcuni venivano divorati dal terribile cane Cerbero, che li uniformava subito al resto delle ombre, come a dire “sei troppo vivo per entrare, aspetta che ti rendo abbastanza morto” – una sorta di selezione all’ingresso. A due eroi soltanto fu permesso di tornare, Odisseo ed Enea: anzi, entrambi usarono l’Averno come punto informazioni turistiche e per conoscere profezie oscure.
Il primo, appena separatosi da Circe, vi andò a incontrare l’indovino Tiresia per conoscere il suo destino futuro, e quello gli predisse ancora molte peregrinazioni, un ritorno in Itaca in tarda età e una morte che giungeva dal mare. Ma di tutto ciò parleremo quando sarà il momento, dalle sponde azzurre della Grecia settentrionale.
Al secondo fu anticipato il futuro della sua stirpe e la grandezza di Roma, destinata a divenire caput mundi.
Ma c’è un’ultima storia da raccontare tra le tante, forse la più struggente e intensa delle storie d’amore, quella che Romeo e Giulietta al confronto sono due adolescenti capricciosi, quella in cui la passione varca con infinita dolcezza i confini della vita e della morte: quella di Orfeo ed Euridice.
Di Orfeo la storia è abbastanza nota: figlio d’arte nato dalla Musa Calliope, fu il più talentuoso poeta e musicista mai esistito. Con la sua lira, dono di Apollo, e gli insegnamenti delle Muse, egli riusciva ad ammansire le belve feroci e a commuovere persino alberi e sassi: si dice che in Tracia un gruppo di querce di montagna sia ancora disposto nello schema di danza in cui Orfeo le lasciò dopo una sua performance. Sposò e amò Euridice d’un amore vero e incondizionato, al punto che quando lei fu morsa da un serpente e avvelenata a morte, decise di non rassegnarsi al Fato.
Il Fato, per i Greci, era mica roba da poco: divinità superiore a tutte le altre, Zeus compreso, era già scritto e immutabile, tanto per gli uomini quanto per gli dèi. Ma l’urgenza umana d’oltrepassare i confini imposti è qualcosa di primigenio e indomabile, specie se come in questo caso c’è l’Amore di mezzo.
Così Orfeo si reca ad Aorno, sfodera due accordi e commuove tutti: commuove il terribile Cerbero, l’arido Caronte e vari giudici infernali, ma soprattutto commuove il cuore ancora gentile e umano di Persèfone. La regina dei morti, memore della propria triste storia, concede al cantore di riportare tra i vivi la sua sposa, ma a una condizione: che durante tutto il tragitto verso il mondo terreno, non si voltasse mai indietro a guardarla, fino a che non fossero giunti a rivedere la luce del sole.
Com’è andata a finire? Ce lo dice Vecchioni:
Morirò di paura a venire là in fondo,
maledetto padrone del tempo che fugge,
del buio e del freddo;
ma lei aveva vent’anni e faceva l’amore,
e nei campi di maggio, da quando è partita,
non cresce più un fiore…
E canterò, stasera canterò,
tutte le mie canzoni canterò,
con il cuore in gola canterò:
e canterò la storia delle sue mani
che erano passeri di mare,
e gli occhi come incanti d’onde
scivolanti ai bordi delle sere;
e canterò le madri che
accompagnano i figli
verso i loro sogni,
per non vederli più, la sera,
sulle vele nere dei ritorni;
e canterò, canterò finchè avrò fiato,
finchè avrò voce di dolcezza e rabbia
gli uomini, segni dimenticati,
gli uomini, lacrime nella pioggia,
aggrappati alla vita che se ne va
con tutto il furore dell’ultimo bacio
nell’ultimo giorno dell’ultimo amore;
e canterò finché tu piangerai,
canterò finché tu perderai,
canterò finché tu scoppierai,
e me la ridarai indietro.
Ma non avrò più la forza
di portarla là fuori,
perché lei adesso è morta
e là fuori ci sono la luce e i colori;
dopo aver vinto il cielo
e battuto l’inferno,
basterà che mi volti
e la lascio alla notte,
la lascio all’inverno…
E mi volterò
le carezze sue di ieri
mi volterò
non saranno mai più quelle
mi volterò
e nel mondo, su, là fuori
mi volterò
s’intravedono le stelle
mi volterò perché ho visto il gelo
che le ha preso la vita,
e io, io adesso, nessun altro,
dico che è finita;
e ragazze sognanti mi aspettano
a danzarmi il cuore,
perché tutto quello
che si piange non è amore;
e mi volterò perché tu sfiorirai,
mi volterò perché tu sparirai,
mi volterò perché già non ci sei
e ti addormenterai per sempre
(Roberto Vecchioni, Euridice)
Eccessivo amore o apprensione? Smania di poggiare lo sguardo su di lei, impazienza, fretta? Orfeo, certo due minuti in più li potevi aspettare.
reportage di Claudio Mancini
foto di Agnese Samà