Il resoconto dei primi 10 giorni in bicicletta pedalando da Milano a Praga
Eccoci qui, a dieci giorni dalla partenza.
Il tempo è volato veloce. Le giornate si affastellano nella memoria e tutto quel che ho visto, le strade, i celi enormi, i boschi, i campanili, i volti… Tutto scorre vorticoso come un sogno disordinato.
Scrivo da Praga, dove ho deciso di fermarmi un giorno per rivedere questa città magica di nuvole e pietre. E per riposare un poco, prima che la mia anima nomade mi richiami al viaggio.
La Milano-Mosca prosegue verso il suo cuore pulsante.
I primi 1000km sono già alle spalle, con il loro carico di fatica e incertezze, di cui il ricordo, benevolo, smussa gli angoli. Si fanno invece vividi i colori: ricordo il verde smaltato dei prati Svizzeri, il grigio brillante dell’asfalto della strada del passo Maloja.
Pioveva a dirotto, quel giorno, e sono giunta alla cima risalendo la corrente come un salmone. Un salmone disperato. Mi è rimasto impigliato alle ciglia l’azzurro, il più limpido che abbia mai visto, dei laghi dell’Engadina, ma anche il nero minaccioso delle pinete, scosse dal temporale. L’Austria mi ha accolta con paesaggi da cartolina, abbracciandomi nelle sue valli strette tra i monti, costellate di fienili e mucche.
Poi, nel mio piccolo orizzonte che man mano andava espandendosi, è comparso il primo grande fiume: l’Inn. Ho seguito per tre giorni la famosa ciclabile, mentre vento, pioggia, notti freddissime, sole cocente e salite impervie hanno iniziato a temprarmi il corpo e lo spirito. Ma tutta quella bellezza in cui mi stavo muovendo diventava mia, sempre più scritta sulla pelle e sotto. Conquistata. Indelebile.
Sono passata per la meravigliosa Innsbruck, fuggendone in fretta: non ero più abituata ai luoghi affollati e rumorosi, agli occhi di chi guarda e non vede. Lo stesso è accaduto per Salisburgo, con le sue piazze color madreperla.
Piano piano la corrente torbida dell’Inn mi ha condotta in Germania, a Passau.
Lì ho ritrovato un vecchio, placido amico: il Danubio. Lo avevo conosciuto a Vukovar, la cittadina croata al confine con la Serbia che mostra ancora, nei muri e nei visi, le ferite della guerra. Ero in viaggio verso Istanbul, allora.
In Germania sono rimasta un giorno soltanto: ho subito tagliato a nord-est, verso il confine con la Repubblica Ceca. Arrivarci è stato difficile e, più volte, mi sono chiesta quale fosse la ragione di tutto questo. Dove Godot fuggisse, continuamente, sempre un passo in là.
Sono rimasta per più di otto ore nel bel mezzo di un temporale, gelido, crocifissa alla lentezza delle salite, tra deviazioni, lavori in corso, camion e altri piccoli inferni. La catena montuosa della Selva Boema non è per tutti. Va presa di petto, bisogna mordere la strada, aggrapparsi alle lunghe ombre nere delle pinete, graffiare, lottare disperatamente, aguzzare l’ingegno. Poi la cima arriva. E lì l’eroismo titanico che ci si sente addosso viene subito sminuito: si parano davanti agli occhi colline, infinite, aggrinzate una dopo l’altra. Ecco la fatica di Sisifo. Siamo ben poca cosa, noi uomini, di fronte alla natura. Leopardi aveva capito.
Nei giorni, i boschi han lasciato spazio ai campi, le rocce alle case. L’orizzonte si è disteso in un azzurro che mi ha tenuto compagnia fino alla Moldava.
Seguendone il corso sono entrata nella capitale dove tuttora sono.
Ci sono stati tanti imprevisti, dalle strade chiuse per i lavori in corso a quelle vietate alle bici, dalla difficoltà di trovare un posto per passare la notte (ho dormito anche in un ristorante cinese e in un ranch per cavalli) al freddo che non mi aspettavo. Ma cicloturismo è anche questo: vivere palmo a palmo la giornata, arrangiarsi, trovare in fretta soluzioni, esser pronti a tutto, anche a ricacciare la fatica, il sonno, la fame, in fondo alla coscienza e pedalare ancora un po’. Probabilmente in salita, con la notte che si avvicina.
Ma solo così si vede davvero la bellezza. Solo pagandola con una moneta salata che ti fa assaporare ogni metro di terra e cielo che conquisti.
Il viaggio lento, poi, ti permette di assorbire pian piano l’anima dei nuovi luoghi in cui ti addentri; ne accogli e com-prendi, a velocità umana, i profumi, i colori, le luci, le abitudini di chi ci abita. Sei esposto tutto il giorno sulla strada, senti fortissimo il vento, il sole, la consistenza dell’asfalto e dell’aria; non vedi l’ora di assaggiare la cucina locale, di imparare qualche parola della nuova lingua con cui ti parlano i cartelli, prima, e le persone, poi. Non si è turisti, catapultati qua o là troppo in fretta per potersi davvero schiudere ad un orizzonte nuovo.
Si è viaggiatori.
Soli con se stessi. Consapevoli, resi acuti nello sguardo e nella percezione delle cose.
E’ una forma rivista dell’agoghè spartana.
Io, che pure insegno e vivo nel mondo della scuola, l’ho capito: l’unico modo per imparare qualcosa è affidarsi alla strada, in compagnia di un buon libro per le lunghe notti silenziose.
Sul tempio di Delfi c’era scritto: “Gnothi s’auton”. Conosci te stesso. E vi assicuro che nulla più di un viaggio pedalato on the road vi pone a contatto con i vostri limiti, le vostre paure, la vostra inattesa forza, dei muscoli e della mente, che vi fa arrivare sani e salvi al giorno successivo.
Siamo abituati a vivere in mondo comodo, ovattato, fatto di espedienti per evitare la fatica e godere della bellezza del diverso a piccole dosi, e sempre con sospetto.
Finchè ci lasciamo illudere che questo pallido, smorto teatrino sia davvero vita, ebbene, non vedremo mai al di là del piccolo cielo di carta che ci impedisce di vedere le stelle.
Dopo questa chiusa dantesca…
Da Praga è tutto. Ci sentiamo tra una settimana da Varsavia, mentre chi volesse seguirmi ogni giorno trova foto e racconti sul blog: http://volpeapedali.blogspot.it/ e sulla pagina Facebook:https://www.facebook.com/volpeapedali/
Reportage di Rita Sozzi