Cosa troverai in questo articolo:
Mai stata all’Eroica, io.
Però in quelle zone ho lasciato incommensurabili watt sui pedali, interminabili scie di acido lattico sulla strada come bave di lumaca, a cavallo della mia bici super nuova e iper accessoriata, che monta fiera un bel 34×32 (32!!).
Quindi arrivo lì bella tronfia esibendo una sicumera da amatrice che fa le Gran Fondo, che se le mangia, le signore in gonnella sulle bici dell’800, tzè.
La prima sorpresa è arrivare a Gaiole
e trovarsi improvvisamente trasportati negli anni 70…60..50…40.. le strade sono piene di bancarelle che vendono abiti vintage da ciclismo e pezzi di ricambio di tutte le epoche fuorchè la nostra.
Ovunque si aggirano squadre ciclistiche di tutto il mondo
che sembrano arrivate lì con la macchina del tempo. E in questa babele trasversale che unisce l’Australia alla Germania, e la Germania all’Olanda e all’Inghilterra e tutte alla Toscana, ma soprattutto unisce noi ai nostri nonni e bisnonni, ci si sente quasi a disagio, a indossare abiti contemporanei, ma il tempo è discreto, il profumo di porchetta irresistibile e ci si fa largo tra la folla mescolandosi a quella festa.
Mi guardo attorno e benchè sia solo la vigilia della gara, noto già costumi e divise incredibili: uomini con i favoriti su bici antiche, c’è persino un biciclo, una di quelle con il ruotone gigante dietro e il ruotino minuscolo davanti, sul quale un signore col panciotto (Mario Labadessa) sfida sicuro la forza di gravità.
Donne vestite anni trenta, così impeccabili che sembrano uscite da un set di Woody Allen, con tanto di cappello Charleston.
Gonnelloni, pantaloni neri al polpaccio, e centinaia di classiche maglie da ciclismo in lana merino con scritte retrò ricamate a mano, alcune rifatte ora come allora e altre davvero vintage.
Parlando di donne, di solito alle Gran Fondo sono una assoluta minoranza, in una misura da uno a dieci, mentre qui la presenza è un po’ più alta: una a sette, ovvero su settemila pettorali provenienti da tutto il mondo, le donne sono mille. Già, penso, in fondo è una “scampagnata”….
La partenza, alle prime luci dell’alba è uno spettacolo surreale:
queste migliaia di ciclisti, stravaganti o elegantissimi, con fari, lampade, pile e torce rischiarano come lucciole una mattina che esordisce incerta se regalarci il sole o rendere la giornata eroica davvero, con la pioggia.
Ed eccomi qui, a cavallo della mia bella, una “signora del 76”
marca Gitane, rimpiangendo di non aver pensato a un look un po’ più d’epoca, ricercato, originale ed essermi accontentata di una maglia da ciclismo un po’ vecchiotta
La prima lezione è: le parole sono importanti, mai sottovalutare i nomi.
Se si chiama “l’Eroica”, un motivo ci sarà, no? no, io mi lascio fuorviare da quel meraviglioso logo storico, graziato e vezzoso e così retrò che proprio non ci penso al suo significato.
“Big mistake, big huge” come direbbe Pretty Woman.
Appena superati i primi chilometri infatti, arrivati al Castello di Brolio,
la strada passa repentinamente da falsopiano a salita decisa. Questo per le mie gambe e i rapporti di Gitane è decisamente troppo.
Improvvisamente mi sento Pinocchio, anzi, peggio, perchè se le sue gambe erano di legno, le mie sono improvvisamente diventate di ferro, e proprio non ne vogliono sapere di girare. I muscoli fischiano come le aragoste quando le butti nel pentolone, implorando pietà.
La strada non molla, anzi, si impenna, e molti attorno a me scendono dalla bici e salgono a piedi. Molti, ma non tutti. Vedo dame d’altri tempi uscire di sella e far forza sui pedali di pesantissimi cancelli senza fare una piega. Evidentemente sotto gli abitini di seta taffetà e voile nascondono quadricipiti femorali di titanio.
La mia faccia quando arrivo in cima s’intona perfettamente al colore della mia bici: blu, ma non mollo. Guardando le corone dei rapporti della mia Gitane col senno del dopo –salita, l’errore mi appare ovvio: non ho contato i denti sono pochi, (pochissimi!) infatti quelli dietro, ne ha solo 22 la corona centrale e tanti (tantissimi!) quella davanti, 42, come scoprirò a fine percorso. Io con un 42×22 non ho mai pedalato in salita! E nemmeno su strade sterrate! Come farò, penso mentre riprendo fiato, e già mi vedo camminare per ore, come fossi io una damina dell’ottocento!
Ma adesso sono in cima, e dall’alto del castello, per un attimo mi godo la bellezza del paesaggio, di questo Chianti incantevole alla luce di un sole ancora timido ma con ampie potenzialità.
Il sollievo della fine della salita dura poco: infatti da lì in poi sarà tutto sterrato e la discesa, se è possibile è ancora peggio. I freni non frenano, e contemporaneamente tagliano le mani. Scendo quindi a velocità nettamente superiori a quella auspicate dalla mia fifa, mentre il dolore alle mani si fa lancinante.
Eroica! Eroica! Urla una voce nella mia testa, adesso capisco..
E procedo così, con le gambe ansimanti su salite corte ma cattivissime e ululando in dicesce impervie cercando un punto di equilibrio tra il dolore dei freni nella piega del pollice e il pericolo di schiantarsi per eccesso di velocità.
Ormai più che una dama dell’ottocento assomiglio alla Pina la moglie di Fantozzi.
Ma non sono ancora scesa dalla bici, e credeteci o no, questo mi riempie di orgoglio.
Il bivio in cui scegliere tra “46-75” la prendo come una domanda retorica e il numero 75 quasi non lo vedo.
Quando arrivo al Ristoro di Dievole mi sembra un miraggio.
La scena sembra uscita da un romanzo di Henry James ambientato nel Chianti.
Un prato abbastanza grande, affollato da gentuluomini e signore e biciclette, con al centro un banchetto a forma di U dietro al quale signore in abiti e cuffiette di epoche passate, servono ai ciclisti di passaggio ogni ben di Dio: pane toscano con olio verdissimo, o pasta di salame, pecorino e poi dolci, crostate, pane e nutella, o pane e vino e torte di mele. In tutto annaffiato da un ottimo Chianti.
Non si beve vino andando in bici! Urla una voce dentro di me, ma sono troppo impegnata con le libagioni per ascoltarla.
Quasi un’ora dopo riparto felice e traballante per la discesa più veloce di tutta la mia vita, e per il resto del giro mi godo il paesaggio meraviglioso finalmente illuminato dal sole, senza più sentire la fatica, le mani o la paura di cadere.
Taglio il traguardo euforica per la giornata trascorsa,
con tanto rispetto e ammirazione per tutte le donne presenti e soprattutto per quelle che hanno fatto percorsi ben più lunghi e impegnativi , ma senza aver trovato una risposta alla vera domanda: perchè il percoso da 46 chilometri e 800 (ottocento!) metri di dislivello su bici pesanti e durissime lo chiamano “la passeggiata”?
Reportage di Alberta Schiatti