Una risata per stemperare la timidezza, un forte accento emiliano, la voce allegra di chi crede in quello che fa, ma senza prendersi troppo sul serio. Quando si è accorta che le sue scarpe da mountain bike, comprate 10 anni fa, erano sfasciate, si è ricordata di quel diario nel cassetto che racconta il viaggio della sua rinascita. L’ha pubblicato nel suo blog, trasformandosi in editrice di se stessa.
Tra le pagine in cui ripercorre i millecinquecento chilometri di viaggio in solitaria con la bicicletta attraverso l’Appennino, arriva il punto in cui si chiede se certe scelte la qualifichino come un’inguaribile «cacciatrice di burroni». Una risposta forse sta nella sua routine e nella petizione che ha promosso su Change.org per l’abbonamento nazionale bici in treno. Sara Poluzzi, 39 anni all’anagrafe, ma 10 da Ciclista, la mattina prende la bicicletta e ogni giorno raggiunge la stazione di Bologna, la carica sul treno in direzione Imola e, pedalata dopo pedalata, si siede alla scrivania da manager. Lo dice come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Questa cosa mi tiene agganciata al viaggio. È come se rimanesse un basso continuo che poi esplode ogni primavera».
Ma è il primo viaggio in solitaria che non si scorda mai. Se è attraverso gli Appennini poi, è l’Italia intera che ti entra dentro. Dieci anni fa Sara è partita con la due ruote cercando un equilibrio sulla colonna vertebrale del nostro Paese. Il suo viaggiare non è quello di chi lascia tutto e diventa nomade, o chi distilla le emozioni in mesi di viaggio. Negli anni ha concentrato gli sforzi ciclistici in poche settimane di ferie. «È una cosa più estrema. se una persona dedica tre mesi della sua vita a un viaggio può avere il tempo di adattarsi, di esplorare le emozioni, sentirsi libero. A partire dal giro da Bologna a Reggio Calabria ho sempre fatto un viaggio ad agosto. Poi a settembre si ritorna alla vita normale».
In Diario a pedali racconti il percorso della “nuova Sara”, che rinasce vestita di bianco dopo una vita in nero e parte finalmente con pantaloni taglia 42. Ogni anno, quando prendi la bici, rivivi questa sorta di Pasqua laica?
È vero, è come se ogni anno mi sentissi trasformata. A marzo mi suona un campanello che mi dice: è ora di rimettersi in forma e partire. Le condizioni di una vita moderna, in città, non mettono alla prova il fisico, magari le stagioni si sentono solo per come ci si veste in modo diverso. Per me invece vogliono dire proprio un cambio di pelle, del corpo. D’inverno faccio sport, mi muovo, ma è a primavera che inizio l’allenamento vero. Tutto questo comporta grande sofferenza e concentrazione su di sé. Il corpo non è più qualcosa di sottofondo. Nutrirlo, allenarlo, ascoltarlo quando sta male durante la preparazione è un modo per pensare di più a me stessa.
Dopo quest’avventura di 21 giorni negli Appennini hai cercato sempre nuove avventure?
Sì, non è mai abbastanza. Alla fine diventa uno stile di vita che porto avanti con entusiasmo. È una cosa ciclica che mi dà grande emozione. Ogni anno è una riscoperta. A un certo punto è come se mi colpisse un fulmine dal cielo. Questo è stato un anno complicato. Ho avuto un incidente e lanciato la petizione su Change.org, ma anche se pensavo di passare le ferie riposando poi torna la voglia di ripartire.
Dove andrai quest’anno?
Al tempo di Diario a pedali ero sola. Da cinque anni siamo in due. La vita mi ha fatto incontrare una persona non troppo appassionata di ciclismo. Mio marito si è dovuto allenare per stare con me. Una preparazione fisica alla relazione! – ride -. Il primo nostro viaggio insieme è stato nello Utah, distese d’asfalto contornate da canyon. Quest’anno andremo da Fiume fino al mar Nero.
Quanto hanno contato gli altri in questo percorso che hai fatto? Nel diario racconti dell'”Esercito degli altri”. C’è un’ambivalenza tra freno e supporto di chi ti sta attorno. Come sei riuscita a trovare la tua strada?
Tutta la passione è nata quando andare in bici non era una cosa da hypster. Il ciclismo urbano praticamente non esisteva e non c’erano le agenzie di viaggi. Adesso nelle librerie trovi sezioni intere di percorsi in bici, ma all’epoca non c’erano. Io ho ubbidito al mio cuore, ho seguito un impulso. Non sapevo se quello che volevo fare avesse un senso ed ero sola a farlo. Amo essere in relazione con gli altri e cogliere dal mondo esterno il maggior numero di stimoli e di scambi con le persone, ma quando mi dicevano che era una cosa folle, io pensavo: “Boh, stai facendo bene!”. Dall’altra parte ho sentito molto la protezione degli altri. La scelta di non usare l’auto e andare in bici innesca nelle persone un istinto naturale di protezione. La stessa che ho trovato nella petizione. Molte persone hanno firmato – siamo quasi a 60mila – per proteggere questo essere in via di estinzione che si muove in bici. È una cosa che vedo anche nei viaggi. Questa rete che ti protegge perché, anche se si scegli la solitudine, non si è mai da soli. Anche in solitaria sull’Appennino, se in certe regioni ho raggiunto il picco di disperazione perché non c’erano neanche le indicazioni stradali, quando incontravo qualcuno era sempre gentile.
Ora con internet e GPS è cambiato tutto?
Adesso è tutto abbastanza facile, ma preferisco ancora, quando sono in un posto e non conosco la strada comunque chiedere. La cosa migliore è rivolgersi al bar del paese. Purtroppo la navigazione online ha anche ridotto il ricorso agli altri, concedendo l’indipendenza totale anche in posti sconosciuti.
La petizione su Change.org, (con cui chiede a Trenitalia un abbonamento nazionale per portare la bici sui treni, ndr) è un po’ la dimensione sociale del tuo amore per la bicicletta…
Sì, all’inizio non mi ero accorta che esiste questa dimensione e non l’avevo ancora vissuta. Pedalavo. Poi quando ho avuto bisogno mi sono accorta che c’è un mondo là fuori di persone che ci lavorano, ci credono, ci spendono un sacco di energie. Ora mi sento in dovere di contribuire e mi sto integrando in questa comunità dei ciclisti urbani.
Ma l’Italia è pronta?
Non siamo pronti, ma l’Italia è fatta dalle persone, ci vuole pazienza e le cose evolveranno. In Emilia-Romagna l’effetto della petizione è stato quasi istantaneo e c’è una sensibilità…
Si stanno sviluppando anche dei servizi che danno possibilità di pensare davvero alla bici come mezzo di trasporto alternativo, come Dynamo, la velostazione di Bologna…
Nel 90% della popolazione manca una cultura della bici. La velostazione è un progetto che mi entusiasma ed è gestito dall’associazione Salvaciclisti. È un centro di servizi e diffusione di cultura della bici. Sarà un centro di aggregazione, di arrivo e di partenze. Si noleggeranno le bici – anche elettriche -. Un centro da cui partiranno un sacco di idee. La bici in modo naturale genera entusiasmo ed energie positive. Ci mette in contatto col nostro corpo, di cui spesso ci ricordiamo solo quando sta male. Nell’utilizzo quotidiano della bici il corpo partecipa e diventa parte integrante del nostro modo di vivere e di muoverci. Si entra in una dimensione che non è quella dell’isolamento dentro un mezzo, ma è il nostro corpo a contatto con il territorio. Quando si pedala ci si appropria del territorio circostante, si diventa protagonisti. Il movimento lo generi tu e fai anche più attenzione all’alimentazione.
Dell’Appennino cosa ti è rimasto dentro?
Io lo amo l’Appennino. Sento la parola e mi sciolgo. All’inizio sono partita facendo qualche weekend. Da Bologna a Firenze, da Modena a Massa, e poi basta, mi sono detta: “l’Appennino lo voglio fare tutto!” Provo una grande nostalgia della parte a Sud, diversa dalla conformazione più vicina alla mia città. I ricordi e le immagini di quei luoghi mi riempiono, mi commuovono e mi creano un senso di appartenenza. Nonostante sia nata in Pianura Padana.
Credits: Diario a pedali (Sara Poluzzi, Flickr)