Samuele Zoccarato e Barbara Guarischi per i quelli nazionali, Gianni Veermersh e Paulne Ferrand Prevot per quelli mondiali: sono questi i nomi dei primi Campioni italiani e poi Campioni Mondiali nella specialità del gravel bike.
Proprio così: dopo i primi anni di “rodaggio”, dopo stagioni in cui questa disciplina a metà strada tra la bici da corsa, il ciclocross e il mountain biking aveva vissuto la sua dimensione agonistica soprattutto in modo “unsupported” e di lunga distanza; bene dopo tutto questo il 2022 è stato il primo anno in cui l’UCI – ovvero il “Governo” internazionale del ciclismo – ha regolamentato precisamente il gravel in senso agonistico, calendarizzano appunto i primi campionati ufficiali di specialità.
“Ufficiali”, sì: perché con questo termine non vogliamo affatto dire che le tante altre competizioni gravel che si disputano in Italia e nel mondo non abbiano diritto e “dignità” per essere considerate tali. Ma il fatto è che queste non assegnato titoli; inoltre, alla prova dei fatti, la formula su cui si svolgono è spesso diversa, è più incentrata sulle lunghe distanze, è più “senza assistenza”, in alcuni casi letteralmente autogestita da parte dei rider chiamati a portare a termine il percorso in totale autonomia.
Diverso è il caso del gravel agonistico sotto l’egida Uci (o se preferite sotto l’egida delle rispettive Federazioni nazionali, in Italia la F.C.I.).
In particolare, la prova per il Titolo Tricolore si sono disputate ad Argenta (Ferrara), lo scorso settembre, mentre il mondiale ha preso il via sempre in Italia, con partenza da Vicenza e arrivo a Cittadella, ad inizio ottobre.
Pur se con distanze un poco diverse (130 chilometri l’italiano, 190 chilometri il Mondiale), le due competizioni hanno rispettato un regolamento simile, con regole che gli stessi organizzatori e gli stessi responsabili federali hanno giudicato “passibili di eventuali modifiche o aggiustamenti visto che si trattava dell’edizione zero dei campionati”. Quel che è certo è che le gare 2022 hanno tracciato la via per una disciplina che a quanto pare sta appassionando anche chi questo sport vuole approcciarlo con in testa il cronometro.
Il gravel racing, dunque, si è strutturato con un formato che a tutti gli effetti è stato sintesi tra una “classica” di ciclismo su strada e una competizione di mountain bike cross country.
La distanza ha impegnato i “rider” per circa quattro ore, mentre l’altimetria è stata in entrambe i casi blanda: poche centinaia di metri per il mondiale e percorso praticamente tutto piatto per l’Italiano. Il fondo stradale? Il regolamento vuole che almeno l’ottanta per cento sia su strada non asfaltata, ovvero sterrata o “bianca”. Il regolamento però non riportava indicazioni sui passaggi tecnici sul percorso, su eventuali ostacoli artificiali, e tantomeno su un dislivello minimo o massimo da rispettare.
A corredo di questo le norme prevedevano punti specifici dove era consentita l’assistenza tecnica ai corridori, che assolutamente non potevano essere seguiti da ammiraglie o motostaffette, ma che comunque potevano “gareggiare con qualsiasi tipologia di bicicletta, salvo le e-bike”.
Una cornice regolamentare di questo tipo ha fatto sì che gli organizzatori allestissero un percorso che era quanto di più naturale e logico offrisse il loro territorio: abbiamo detto che di salita ce n’era poca in entrambi i casi, di reali difficoltà tecniche sul percorso non se ne sono praticamente viste e la selezione tecnica piuttosto è stata fatta dal fondo sdrucciolevole dei tratti sterrati, che come era prevedibile sono stati affrontati a velocità “stradistiche”. Pensate, la velocità media dei vincitori uomini è stata di quasi trentotto chilometri chilometri all’ora!
È vero, alla luce di tutto questo non sono mancate alcune polemiche, soprattutto per bocca di chi “il gravel ha un estrazione più fuoristradistica”, chi “il gravel non può essere una gara su strada”, oppure di chi “il gravel deve essere completamente unsupported, senza la minima ombra di assistenza”.
Effettivamente più di qualcuno ha storto un po’ il naso a vedere al via tanti atleti in sella non su vere e proprie gravel bike, ma piuttosto su bici stradistiche adattate al gravel semplicemente con gomme un po’ più artigliate, ma provviste comunque dei classici pedali (e scarpe) a sgancio rapido da strada, non da mtb.
Sarà il tempo a dirci se l’UCI o le varie Federazioni nazionali rimoduleranno in parte il regolamento e il formato del gravel racing; quel che è certo è che, a parte eventuali migliorie ed aggiustamenti che si possono certamente apportare, le prime gare sono state un successo soprattutto di pubblico di attenzione mediatica. Il gravel race piace fondamentalmente perché ha oggettivamente ha aggiunto una ulteriore dimensione in più al caleidoscopio mondo del ciclismo agonistico, una dimensione che, perché no, può essere ulteriore sale per rendere ancor più multidisciplinare ed eterogeneo l’agonismo in bicicletta.
Il percorso delle competizioni 2022 ha favorito di più i ciclisti stradisti, è vero, ma nulla impedisce che nelle stagioni a venire, percorsi e altimetrie di diverso tipo potranno richiamare ai nastri di partenza più i biker, o se preferite che le classifiche potranno arridere più a questi che non agli stradisti.
E, appunto, questo sarà solo un elemento in più per rendere più imprevedibili ed incerti gli ordini di arrivo di una specialità che estremamente indecifrabile può esserlo anche dal punto di vista agonistico. E questo, a nostro avviso è un ulteriore punto in più a favore di questa disciplina cosa giovane, e così avvincente. Non trovate?