Itinerario in bicicletta con traccia GPX – La costa Verde Sarda
- lunghezza: 76 km
- dislivello in ascesa: 1689 m
- fondo stradale: asfalto (strada provinciale secondaria)
La Sardegna ha l’abitudine di entrarti dentro, e di restarci. Si tratta di un sentimento primigenio, istintivo, impossibile da capire o da spiegare fino a che non si è provata la sensazione di pedalare tra i mirti e le terre rosse bruciate dal sole, in una perfetta comunione con la natura e con la Storia.
Ichnusa in sardo vuol dire orma: secondo la leggenda, la Sardegna è nient’altro che l’impronta del piede di Dio, formatasi al tempo della Creazione; questo nome ha fin dai tempi antichi evocato suggestioni di una spiritualità che lento può cogliere solo chi si sposta a passo, tracciando le sue impronte (o i suoi battistrada) con umiltà e discrezione.
Questo anello di circa 80 km attraversa una delle zone più povere e più belle d’Italia, il Sulcis Iglesiente, la regione delle miniere abbandonate e dei set western di Sergio Leone, ovvero la Sardegna più vera e più lontana dalla modaiola Costa Smeralda.
E se gli spostamenti per arrivarci in bici sono decisamente antieconomici in termini di tempo speso per arrivarci, i colori unici e ruvidi di queste terre valgono da soli lo spostamento.
Il nostro giro parte da Iglesias, provincia di recente istituzione nella regione sud-occidentale dell’isola, meta che va guadagnata: da Roma, per esempio, si può prendere il treno regionale per Civitavecchia, da lì imbarcarsi per Cagliari, e dopo 12 ore di traversata avventurarsi sul trenino a gasolio monovagone che ci porta qui coi suoi rumori metallici. Oppure arrivarci in aereo con le bici smontate, o ancora noleggiarne sul posto (esistono vari tour operator che propongono anche giri in mtb di questa zona, i cui sentieri sterrati offrono alternative a questo itinerario più impegnative ma ugualmente affascinanti).
Da qui cerchiamo lo sbocco al mare, tenendoci sempre col vento in faccia che arriva da ovest: dopo i primi km di saliscendi nelle colline, iniziano a comparire le prime miniere abbandonate. la catastrofe sociale e lavorativa che colpì e continua a colpire questi luoghi ha lasciato in eredità città fantasma, residui di archeologia industriale del primo Novecento e un fascino spettrale tutto fatto di porte di legno sprangate e mattoni mangiati dal verde insistente della vegetazione.
Superato il bivio per Gonnesa, il vento si fa più insistente: ci siamo, il nostro finisterre nostrano è guadagnato, e di fronte a noi solo il blu del Mediterraneo, e qualche centinaio di km più in là, le Baleari. Da quando imbocchiamo la SP83 all’altezza di Fontanamare, inizia una delle strade più affascinanti d’Europa: Ichnusa si veste del suo abito migliore, fatto di cespugli in fiore e rocce rosse, mentre pedaliamo su questo nastro d’asfalto sospeso tra terra e mare.
Sotto il villaggio di Nebida, le meravigliose miniere di Porto Flavia, i cui cunicoli finivano direttamente tra i flutti per consentire il trasporto su nave. Il paesaggio è commovente, e merita anche un soggiorno più approfondito di un viaggio in bici, per esempio un trekking a piedi lungo il sentiero delle miniere nel blu.
Dopo Nebida una lunga discesa ci porta nei pressi di Masua, dove è presente un museo delle antiche macchine da miniera. E qui iniziano i dolori: il colle di Montecani mette a dura prova le gambe di qualsiasi cicloturista, con uno strappo breve ma intensissimo e pendenze tra il 15 e il 18%. Ma una volta varcata la ventosa strettoia che segna la fine della scalata, ci si dischiude un paesaggio da sogno, una vallata di un verde quasi irlandese, evidentemente protetta dal vento che ha invece inasprito e ingiallito la costa. La discesa successiva sembra quasi fatta apposta per asciugare il sudore dalla fronte, e per preparare l’animo già sorpreso da tanta bellezza a una sosta a Cala Domestica.
Proseguendo in direzione di Buggerru, è ora il turno di un vasto altipiano in cui la strada si apre un varco tra la macchia mediterranea, qui folta e uniforme. Passata Buggerru, pittoresco villaggio di pescatori, ci attendono ancora pochi km di rettilineo per arrivare a Portixeddu, il “porticciolo”, un luogo che pare dimenticato dal Tempo, le cui alture passano i giorni a guardare le onde infrangersi su Capo Pecora.
I toponimi sardi continuano a farci strada coi loro suoni dal sapore ritroso e quasi onomatopeico: puntando verso l’interno arriviamo a Fluminimaggiore, dove sorgono i resti del Tempio di Antas, dedicata al dio eponimo dei sardi, Sardus Pater Babai: si tratta di una divinità dapprima nuragica, poi cartaginese e infine romana legata al culto delle acque e della vegetazione.
La strada del ritorno per Iglesias è più arida ma ugualmente affascinante: si incontrano nuovi dislivelli, stavolta meno aspri, altre miniere e un paesaggio desolato e roccioso.